Alla fine della COP26 si tirano le somme, e le opinioni si distribuiscono tra chi giudica il negoziato un fallimento, chi misura il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, chi considera l’evento un quasi successo nonostante tutti i limiti esistenti. Di seguito faremo un breve resoconto della COP26.

Ma preme evidenziare da subito il dramma dell’inefficacia della politica globale, delle attuali Nazioni Unite, nel cercare di governare fenomeni planetari come il cambiamento climatico. Papa Francesco nell’enciclica Laudato Sì già denunciava l’impasse della politica: “i Vertici mondiali sull’ambiente degli ultimi anni non hanno rispo­sto alle aspettative perché, per mancanza di deci­sione politica, non hanno raggiunto accordi am­bientali globali realmente significativi ed efficaci.” (par.166, LS)

Siamo testimoni dell’accelerazione continua delle tecnologie, della globalizzazione dei flussi finanziari, di merci, dei trasporti, di una macchina che deve estrarre materie dalla terra per nutrire bisogni, desideri umani, avidità, accumulando cose e rifiuti che si distribuiscono iniquamente tra paesi e ceti sociali. Mentre siamo ancora poco consapevoli che viviamo in una casa comune dove tutto è interconnesso, per cui un battito d’ali di una farfalla qui, può causare un uragano a migliaia di chilometri. Come ad esempio con i virus e le emissioni di gas serra.

Il dramma è il differente dinamismo, il profondo squilibrio, asimmetria, tra una macchina tecnologica, economica e finanziaria, che è sempre più potente e va sempre più veloce, e una polis, una politica, lenta, divisa e incerta, che non riesce a regolare i comportamenti degli Stati così come dell’economia e della finanza, a dare una direzione comune, a orientare le azioni verso un bene comune. La COP26 si fonda sulla regola dell’unanimità e quindi basta solo un paese (ad esempio l’Arabia Saudita) a sospendere e posticipare le decisioni, mentre le lobby più potenti influenzano le decisioni a danno degli esclusi.

Il dramma di questa diversa velocità tra politica, economia e finanza, sta causando la tragedia della fine dei beni comuni, della diversità biologica, esacerbando esclusioni sociali e provocando nuovi conflitti e tensioni. Eppure il sistema multilaterale, le Nazioni Unite, la cooperazione tra gruppi di paesi, è l’unica strada per affrontare le crisi planetarie.

La Chiesa chiede una vera Autorità politica mondiale (par. 175, LS) e nella Fratelli Tutti Papa Francesco scrive: “In questa prospettiva, ricordo che è necessaria una riforma «sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni». Senza dubbio ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Infatti, «quella internazionale è una comunità giuridica fondata sulla sovranità di ogni Stato membro, senza vincoli di subordinazione che ne neghino o ne limitino l’indipendenza». Ma «il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. […] Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale». Occorre evitare che questa Organizzazione sia delegittimata, perché i suoi problemi e le sue carenze possono essere affrontati e risolti congiuntamente.” (par.173, FT). Per ora, come vedremo tra breve, sono le decisioni politiche di alcuni gruppi di paesi a rispondere, con più impegni alle questioni pressanti di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, ma sempre in modo limitato soprattutto rispetto ai diritti umani.

Le organizzazioni della società civile, i giovani, chiedevano agli Stati, ai politici, di decidere nella COP26 misure urgenti per affrontare il cambiamento climatico. Qui di seguito riassumiamo alcune di queste richieste, avanzate dalla FOCSIV con l’alleanza delle agenzie cattoliche di sviluppo CIDSE.
Abbiamo chiesto, tra le altre cose – si veda: La Giustizia Climatica nel contesto del COVID-19 – FOCSIV – di:

  • Accrescere l’ambizione e l’emergenza nei Contributi Determinati a livello Nazionale (NDC) per mantenere le temperature globali al di sotto di 1,5°C, per cui ogni paese dovrebbe accelerare gli attuali piani e azioni nazionali per ridurre significativamente le sue emissioni entro il 2030, guidati dalla scienza e dal principio di equità, investendo in soluzioni di energia rinnovabile, coinvolgendo le comunità locali, per costruire la resilienza al clima, generare posti di lavoro sostenibili, promuovere la salute umana ed ecosistemi sani.
  • Perseguire una giusta transizione energetica ponendo immediatamente fine a tutti i sostegni ai combustibili fossili a livello nazionale e all’estero, compresi carbone, petrolio e gas, incanalando maggiori finanziamenti verso il 100% di produzione e consumo di energia rinnovabile.
  • Adempiere alle promesse sui finanziamenti per il clima colmando il divario rimanente il più rapidamente possibile in modo che il contributo dei paesi più ricchi vada oltre il livello di 100 miliardi di dollari fino al 2025, con almeno il 50% dei flussi finanziari per l’adattamento. Questo significa in particolare per l’Italia raggiungere al più presto l’obiettivo dello 0,70% del reddito nazionale lordo destinato alla cooperazione allo sviluppo.
  • Inserire il tema “Perdite e danni” a causa del cambiamento climatico (Loss & Damage) tra le priorità della COP, insieme a Mitigazione e Adattamento, stabilendo un nuovo meccanismo di finanziamento dedicato che sia in grado di mobilitare almeno 75 miliardi di dollari all’anno entro il 2023, secondo il principio “chi inquina paga”, tassando i profitti delle compagnie di combustibili fossili.

Altre questioni rilevanti riguardano i mercati del carbonio che non dovrebbero includere la terra quale risorsa coinvolta nei cosiddetti crediti di emissione, la creazione di un meccanismo di reclamo governato da un organismo indipendente trasparente per contribuire al rispetto dei diritti delle comunità locali e delle popolazioni indigene, non adottare soluzioni geo-ingegneristiche come la bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio, e invece investire sostanzialmente per soluzioni decentralizzate, accessibili ed eque come l’agroecologia, mettere in atto politiche e misure più severe per prevenire la deforestazione e il degrado naturale, dando la priorità alle persone e non ai mercati, con il pieno coinvolgimento e il consenso delle popolazioni indigene e delle comunità locali, e un approccio responsabile dal punto di vista del genere. Di grande importanza è includere i diritti umani e il diritto al libero consenso preventivo e informato (ILO 169) nel Regolamento di Parigi e in altri processi ONU correlati, come il Meccanismo Internazionale di Varsavia su perdite e danni, e valutare come le risposte climatiche abbiano contribuito alla coerenza delle politiche e alla promozione dei diritti e dei principi riaffermati nell’Accordo di Parigi.  Infine è indispensabile una regola di trasparenza che dovrebbe garantire che i governi forniscano in anticipo informazioni su come le loro politiche climatiche contribuiscono alla promozione sia dei diritti umani che dello sviluppo sostenibile, per permettere un monitoraggio coerente dell’attuazione degli NDC.

I risultati della COP26 non hanno risposto a tutte queste richieste. Le azioni decise sono in alcuni casi importanti, in altri chiaramente non sufficienti. In particolare le scelte adottate non rispondono al principio dell’equità sociale, al riconoscimento e alla difesa dei diritti umani dei popoli indigeni, delle comunità più vulnerabili. Tuttavia vi sono stati alcuni accordi tra gruppi di paesi che hanno rappresentato un passo avanti, anche se tardivo. Di seguito elenchiamo, i principali impegni presi da alcuni Paesi durante la prima settimana di COP26.

Circa 100 Paesi fanno ora parte del Global Methane Pledge proposto da UE e USA per ridurre del 30% rispetto al 2020 le emissioni di metano entro il 2030. Mentre 110 Paesi, tra cui il Brasile, hanno aderito alla “Glasgow Leader Declaration on Forest and Land Use” per fermare la deforestazione al 2030.

Alcuni Paesi e istituti finanziari (tra cui USA, Canada, UE, alcune banche multilaterali, e all’ultimo momento anche l’Italia) hanno deciso di fermare i sussidi pubblici a nuovi investimenti in combustibili fossili (se non compensati da cattura e stoccaggio) entro il 2023. Ma il documento parla di ‘combustibili fossili non abbattuti’ (unabated fossil fuels), le cui emissioni, cioè, non possono essere abbattute attraverso tecnologie come, ad esempio, la cattura e lo stoccaggio di anidride carbonica (Carbon capture and Storage), contestate da più parti.

L’alleanza Boga (Beyond Oil & Gas Alliance) promossa da Danimarca e Costarica mette insieme alcuni paesi (tra cui l’Italia come “friend” dell’iniziativa, non come membro a pieno titolo, e senza paesi chiave come Stati Uniti, Germania, Cina e India, che si sono impegnati a porre fine a nuove concessioni di licenze per esplorazione e produzione di petrolio e gas, o hanno fatto passi verso quell’obiettivo.

È stato siglato un accordo multilaterale sull’uscita dal carbone (no a nuove centrali, sia nel proprio paese che all’estero) entro il 2030 per i paesi sviluppati, entro il 2040 per i meno sviluppati; hanno aderito tra gli altri Cile, Germania, Polonia, ma non USA, Cina, e India.

In più gli USA e la Cina hanno firmato una dichiarazione congiunta nella quale le due economie più responsabili per le emissioni di carbonio si impegnano ad adottare misure concrete per limitare il riscaldamento sotto il grado e mezzo entro fine secolo, in particolare attraverso un mercato globale delle emissioni di carbonio, che però finora ha mostrato molti limiti (si veda: La COP26 e il mercato delle emissioni ).

A livello di COP26 i risultati[1] sono stati vincolati fino all’ultimo momento alle richieste di revisioni di alcuni Stati più riottosi, e quindi si sono abbassati al minimo comune denominatore.

Cina e India si sono impegnate ad arrivare a emissioni nette zero rispettivamente al 2060 e al 2070, e non al 2050 come chiesto da più parti. Mentre 91 paesi hanno aggiornato i loro impegni aumentando il tasso di riduzione delle emissioni (2020 NDC Enhancements | Climate Watch). La dichiarazione finale riconosce che sono urgenti maggiori impegni indicando la diminuzione delle emissioni per il 45% entro il 2030 relativamente al livello del 2010, arrivando a emissioni nette zero intorno alla metà del secolo (senza quindi fissare l’anno preciso del 2050); e chiede una progressiva riduzione (ma non eliminazione) dell’uso del carbone, e la eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili “inefficienti” (questione annosa mai risolta e che anche la COP26 non risolve).

Sono stati adottati orizzonti temporali comuni a 10 anni per gli NDC a partire dal 2025 (e poi sempre decennali da comunicare ogni 5 anni), che li renderanno finalmente confrontabili tra loro rispetto all’anarchia vista da Parigi in poi. Purtroppo, il testo viene approvato con una clausola di salvaguardia per quei paesi che per qualsiasi motivo non saranno in grado di comunicare il proprio NDC secondo le nuove regole già nel 2025, rimandando la presentazione dei nuovi impegni al 2030 con orizzonte 2040. Questo mentre secondo il rapporto aggiornato sul divario delle emissioni dell’Unep, gli attuali piani climatici dei Paesi stanno portando a un riscaldamento globale di 2,4° C.

Nonostante ciò, alcuni passi avanti sono stati fatti sulla trasparenza: ogni paese deve comunicare in maniera trasparente i dati sulle proprie emissioni e progressi nella mitigazione in un sistema di controllo reciproco e monitoraggio degli impegni nazionali che entrerà in vigore entro il 2024, in modo flessibile per i Paesi in via di sviluppo che ne hanno bisogno.

Sono stati impegnati 232 milioni di dollari per il Fondo di adattamento, la più alta mobilitazione di risorse, più del doppio di quella precedente. Gli impegni sono arrivati da USA, Canada, Svezia, Finlandia, Irlanda, Germania, Norvegia, Qatar, Spagna, Svizzera, Regno Unito e dai governi del Quebec e delle Fiandre. Poca cosa rispetto a quanto stimato necessario da Unep, e cioè dai 140 ai 300 miliardi di dollari fino al 2030 (Adaptation Finance – United Nations Environment – Finance Initiative). La dichiarazione finale di Glasgow nota con preoccupazione questa mancanza e chiede di “almeno raddoppiare” i finanziamenti dai paesi sviluppati.

Allo stesso modo la dichiarazione riconosce il fallimento nel non essere riusciti a raggiungere i 100 miliardi annui per le misure di mitigazione e adattamento dei paesi in via di sviluppo entro il 2020, e rilancia l’impegno per il 2025.

Sulla copertura di perdite e danni nei paesi più poveri e vulnerabili vi sono solo impegni di principio sulla necessità di sostenere i paesi più colpiti dal cambiamento climatico con nuovi finanziamenti. Ma anche qui nulla di concreto.

Infine, i principi dei diritti umani sono stati inclusi nella parte operativa dell’art.6, dedicato ai meccanismi di mercato del carbonio che prevedono lo scambio di “crediti di emissione” tra i paesi e le imprese, per incentivare la riduzione delle emissioni secondo il principio “chi inquina paga”. Ma questi meccanismi risultano opachi, possono avere effetti negativi sulle persone e la natura, e il loro contributo a una concreta riduzione delle emissioni è sopravvalutato.

Come si è potuto vedere gli impegni ufficiali della COP26 continuano a mostrare limiti e ritardi, mentre diversi gruppi di paesi, in ordine sparso, a seconda delle loro condizioni e ambizioni (ad esempio la Francia è membro del BOGA perché ha fatto la scelta nucleare), siglano accordi più avanzati su alcuni temi. Importantissimo è l’accordo tra USA e Cina, i due giganti mondiali, ma senza traguardi specifici (se non per qualcosa da parte USA, si veda: U.S.-China Joint Glasgow Declaration on Enhancing Climate Action in the 2020s – United States Department of State).

Gli accordi riguardano soprattutto la riduzione delle emissioni, mentre i risultati sono molto insoddisfacenti dal punto di vista della giustizia climatica, dell’equità e dei diritti umani. I paesi più poveri e le comunità più minacciate dal cambiamento climatico (ricordiamo che l’obiettivo di limitare il riscaldamento ai +1,5° e +2°C è una media planetaria, in alcune aree geografiche il riscaldamento sarà ben superiore ai +2°C, ad esempio nel Sahel ma anche nel Mediterraneo) ricevono poche briciole per adattarsi e coprire perdite e danni che già adesso stanno provocando distruzione di ecosistemi, morti e sfollamenti.

Ogni paese ricco in qualche maniera cerca di migliorare le sue condizioni nazionali, assumendosi pochi impegni di cooperazione internazionale rispetto ai bisogni e ai diritti delle popolazioni più colpite e meno responsabili dei cambiamenti climatici. Ogni Stato guarda innanzitutto alla protezione della sua economia e al suo elettorato, mentre i diritti delle popolazioni escluse rimangono in secondo piano.

Come chiesto da Papa Francesco ci vuole un nuovo multilateralismo fondato sui diritti, un amore politico che superi le frontiere, gli approcci nazionalistici, gli egoismi e le avidità di un paradigma tecno-economico che sta uccidendo la nostra casa comune. Intanto è già possibile accelerare la nostra azione di cambiamento, dagli stili di vita individuali a quelli comunitari, parrocchiali e di quartiere, di città, dal basso, chiedendo nuove politiche. In questo senso va la Piattaforma Laudato Sì (Laudato Si’ Action) a cui tutti siamo chiamati a partecipare.

[1] Diverse di queste notizie sono state raccolte da Italian Climte Network: Home – Italian Climate Network, che ringraziamo.

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