In occasione della giornata Mondiale della TERRA 2019
un approfondimento su DISUGUAGLIANZE E LANDGRABBING

L’accaparramento delle terre (land grabbing in inglese) è un fenomeno che sta creando crescenti disuguaglianze tra chi si impadronisce di questa risorsa essenziale alla vita, con acqua, semenze e biodiversità, e chi ne viene espulso o ridotto a dipendenza senza più autonomia. E’ un fenomeno  guidato da interessi economici e politici di poteri sovrani ed imprenditoriali che si svolgono al di sopra dei bisogni, dei diritti e delle speranze delle comunità locali.

I casi raccolti nel nuovo rapporto Focsiv (in pubblicazione per maggio 2019) offrono dati, informazioni, e raccontano storie di sopraffazione delle comunità più povere, che non hanno più diritto neanche alla loro terra, alla loro sopravvivenza. Esse sono rappresentate come un ostacolo al progresso. I padroni della terra non sono più i suoi custodi ma ristrette élite politiche ed economiche che decidono dello sviluppo di tutti.

E’il grande progetto, la grande narrazione, nata con la modernità, dello sviluppo inteso come progresso senza fine, lineare, che estrae risorse dimentico del rapporto con la natura e del ruolo delle comunità locali, dei piccoli contadini, dei popoli indigeni. Scarti dello sviluppo. E’il progetto dell’imperialismo, del capitalismo e della neo-colonizzazione, che non si è arrestata con l’indipendenza dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, ma che si è trasformata in nuove forme e con nuovi protagonisti.

“… questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza, verrà definita l’epoca della Grande Cecità … di un più generale fallimento immaginativo e culturale …” come scritto recentemente da Amitav Ghosh[1]. Egli riflette sul fatto che in letteratura e quindi nella nostra cultura globale non si tiene conto del cambiamento climatico. Il problema fondamentale, antropologico, è infatti il nostro modo di concepire e vedere il mondo, il rapporto con gli altri e con la natura come ci ha insegnato Papa Francesco con la Laudato Sì. Ecco allora che la questione del land grabbing, legata sempre di più al cambiamento climatico, ha una origine innanzitutto culturale che permea la nostra politica, l’economia e i rapporti sociali e con la natura.

Gli ultimi dati registrati sul data base Land Matrix[2]  mostrano che la cumulazione dei contratti di acquisto o locazione di terra in corso di negoziazione, conclusi e falliti, ha raggiunto il numero di 1.800 circa per una dimensione totale di 71 milioni di ettari. La loro distribuzione regionale, che si concentra soprattutto in Africa, non si è modificata rispetto a quella già descritta nel rapporto FOCSIV del 2018.

I principali investitori (tabella 1) sono dei paesi ricchi (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Spagna, Svizzera) e sempre più di paesi emergenti (Cina, Malesia, Brasile, Corea del Sud ed India).  Mentre i principali paesi target sono non solo quelli poveri africani ma di diversi continenti tra cui anche l’Europa con la Ucraina.

Tabella 1. I primi 10 paesi investitori

Paesi investitori Dimensioni in superficie degli investimenti (ha)
Stati Uniti 13.379.802
Cina 11.977.719
Canada 10.721.225
Regno Unito 7.841.964
Malesia 5.871.589
Spagna 4.659.786
Brasile 4.602.712
Corea del Sud 4.454.261
India 4.080.479
Svizzera 3.917.221

Fonte: Land Matrix

Tabella 2. I primi 10 paesi target

Paesi target Dimensione in superficie degli investimenti (ha)
Perù 18.165.932
Repubblica Democratica del Congo 8.092.209
Ucraina 6.823.960
Brasile 5.009.513
Filippine 4.758.281
Sudan 4.297.886
Sud Sudan 4.171.972
Madagascar 3.980.483
Papua Nuova Guinea 3.925.998
Mozambico 3.916.384

Fonte: Land Matrix

Per quanto riguarda la tendenza degli affari sulla terra, una recente analisi di Cotula e Berger[3], mette in evidenza come la corsa alla terra sembra si sia ridotta negli ultimi anni. La motivazione principale del rallentamento sembra sia da rintracciare nella riduzione dei prezzi delle materie prime, e quindi nella minore pressione della domanda a seguito degli effetti della prolungata crisi economica internazionale. A ciò si deve aggiungere un relativo cambiamento della posizione dei governi dei paesi in via di sviluppo che stanno seguendo politiche più sovraniste o comunque di attenzione gli impatti sociali ed ambientali.

D’altra parte gli autori sottolineano come i fattori strutturali e di lungo periodo continuino ad essere determinanti. La corsa è rallentata ma prosegue ed è possibile possa riaccelerare in un futuro prossimo. Intanto i contratti conclusi stanno producendo effetti sulle comunità locali. Purtroppo diversi casi mostrano come il comportamento di grandi imprese e Stati non rispetti i diritti consuetudinari delle comunità locali sulle terre, costringendole a ribellioni e ricollocamenti. Mentre i difensori dei diritti continuano ad essere minacciati ed uccisi (ben 321 persone sono state ammazzate nel 2018[4]). E’ quindi essenziale la mobilitazione delle organizzazioni della società civile e di istituzioni per la difesa dei popoli indigeni e di tutte quelle comunità discriminate nel loro diritto alla terra.

Questo significa anche, secondo gli autori sopra citati, dare potere alle comunità nel far fronte legalmente ai soprusi, e approfondire l’analisi su come i contratti di concessione delle terre siano parte di iniziative di sviluppo complesse legate al rafforzamento delle catene del valore e a piani di sviluppo territoriali. Si tratta dei cosiddetti Partenariati Pubblico Privati (PPP), e cioè di accordi tra Stati e imprese, multinazionali e nazionali, che definiscono regole e condizioni per favorire grandi investimenti su corridoi di sviluppo, poli di sviluppo, zone agroindustriali e parchi industriali, con  tutti i relativi investimenti in infrastrutture che legano i territori al commercio internazionale, il locale col globale, con la costruzione di strade, porti, impianti per la produzione di energia e quindi grandi dighe.

A loro volta i PPP, questi grandi piani di sviluppo, sono collegati a trattati commerciali e di investimento internazionali che li promuovono e proteggono. Al loro interno ci sono una serie di clausole per regolare mediante arbitrati commerciali internazionali privati eventuali contrasti per il mancato rispetto delle condizioni di investimento, si tratta del Investor-State Dispute Settlement (ISDS, o Risoluzione delle controversie tra investitore e Stato). Queste regole sono attualmente oggetto di una campagna[5] di organizzazioni della società civile (a cui partecipa CIDSE con FOCSIV) che denuncia come esse pregiudichino l’interesse generale pubblico e delle comunità locali per la difesa dell’ambiente, della salute, dei diritti dei lavoratori, a favore degli interessi di pochi grandi investitori. E come sia invece necessario sostenere l’adozione di un Trattato ONU vincolante su imprese e diritti umani, di cui si scriverà più avanti e a cui è dedicato un capitolo di questo rapporto.

Dunque, per proteggere il diritto alla terra delle comunità contadine e dei popoli indigeni appare sempre più indispensabile agire in modo coerente e coordinato tanto a livello locale quanto a livello nazionale e internazionale.

[1] Ghosh A., 2017, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Vicenza, Neri Pozza Editore.

[2] Si veda Land Matrix: https://landmatrix.org/global/; i dati sono relativi a Marzo 2019.

[3] Cotula L. e T. Berger, 2017, Trends in global land use investment: implications for legal empowerment, IIED Land Investment and Rights series

[4] Si veda il rapporto 2018 su Front Line Defenders in: https://www.frontlinedefenders.org/sites/default/files/global_analysis_2018.pdf

[5] Si veda https://stopisds.org/it/

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