Le disuguaglianze sono uno dei fattori fondamentali per spiegare le migrazioni.  Le disuguaglianze vanno lette non solo n termini di differenze di reddito ma soprattutto rispetto al soddisfacimento dei diritti umani, sociali, politici, come l’accesso alla salute, all’istruzione, alla sicurezza personale, alla libertà di esprimersi e di essere creativi, di partecipare alla vita politica. Insomma, rispetto a tutte quelle condizioni e opportunità di vita e lavoro dignitoso, di realizzazione personale, di prospettive per la famiglia, che sono drammaticamente assenti o molto limitate dove si è nati.

Infatti, l’accidente e la casualità del luogo dove si è nati determinano in modo fondamentale le possibilità di vivere dignitosamente.  Un giovane nato in Calabria così come in Tunisia o Eritrea, ha molte più probabilità di aver bisogno di migrare di un coetaneo nato in Lombardia, Olanda o Canada, per poter avere la possibilità di vivere in modo più arricchente.

Il luogo di nascita rappresenta dunque il fattore di disuguaglianza più importante in assoluto che porta alla necessità di migrare. La lotta alle disuguaglianze significa ridurre le differenze di condizioni e opportunità tra paesi ricchi e poveri, tra territori marginali e città che concentrano ricchezze e amenità. Si tratta di lavorare per far convergere i diritti di accesso a risorse e abilitazioni necessarie per vivere bene, riducendo le differenze di condizione e di opportunità. E la mobilità umana è una dinamica dal basso per cercare di rispondere a queste disuguaglianze. Già il rapporto sullo sviluppo umano del 2009 denunciava l’estrema disuguaglianza nella distribuzione di opportunità, e affermava l’importanza di costruire politiche per una mobilità regolare.

A tal proposito il recente global compact per le migrazioni non poteva non tenerne conto. Ma è così? Al di là delle polemiche strumentali degli schieramenti politici, che cosa è il Global Compact? Quali sono i suoi contenuti?

Il global compact è un patto tra i paesi appartenenti alle nazioni unite per governare in modo sicuro, regolare e ordinato le migrazioni dai paesi origine ai paesi di transito e di destino (come previsto nel target 10.7 degli SDG (obiettivi dello sviluppo sostenibile). Sono stabiliti principi comuni: sulla dimensione umana delle migrazioni, sulla cooperazione in materia migratoria per governare un fenomeno transnazionale, sul diritto degli Stati a esercitare la propria sovranità territoriale, sul rispetto di uno stato di diritto coerente con gli standard internazionali, sul rispetto dei diritti umani al di là del tipo di status dei migranti, sul riconoscimento delle pari opportunità per le donne, sul primario interesse per la protezione dell’infanzia.

Tutto ciò in un approccio integrato e coerente tra le politiche governative (da quella sull’immigrazione, a quella del lavoro dell’inclusione sociale, a quella di cooperazione con i paesi di origine e transito), con la partecipazione dei diversi portatori di interesse, tra cui gli stessi migranti e le diaspore (nel cosiddetto whole of society approach), e quindi in linea con l’Agenda 2030 sugli SDG.

Nel global compact sono indicati ben 23 obiettivi con relativi impegni che vanno da quello di minimizzare i fattori strutturali che costringono le persone a migrare, tra cui il cambiamento climatico,  a combattere il traffico di persone, gestire i confini in modo sicuro, coordinato e integrato, a sostenere misure per migrazioni regolari, a distribuire servizi essenziali per migranti, ad assicurare la coesione sociale, la valorizzazione delle competenze dei migranti e il ruolo delle diaspore per lo sviluppo, a cooperare nel facilitare ritorni dignitosi e sicuri. Per ogni obiettivo e impegno è elencata una decina di azioni specifiche. Sono quindi oltre 230 le misure che gli Stati dovrebbero applicare per garantire migrazioni regolari, ordinate e sicure. Ma non vi sono indicatori come invece nel caso degli SDG. E questo depotenzia in modo significativo il monitoraggio della sua applicazione.

Nel quadro degli obiettivi, impegni e misure del compact, le disuguaglianze sono citate solo una volta, nell’obiettivo 23 relativo al rafforzamento della cooperazione internazionale, e con riferimento solo ai paesi di origine dove sorgono le migrazioni irregolari, senza considerare quindi le differenze tra paesi, fattore fondamentale delle migrazioni. La questione delle disuguaglianze viene inoltre ricordata relativamente alle pari opportunità, all’accesso ai servizi sociali fondamentali, ad una applicazione equa delle norme, a salari equi, ad un’equa partecipazione alla società e all’economia. Ma sempre come questione interna ai paesi di destinazione o transito.

Nell’obiettivo 2 relativo ai fattori strutturali delle migrazioni sono citati la povertà, la sicurezza alimentare, un’occupazione dignitosa, società inclusive e pacifiche, le infrastrutture e altre condizioni fino alla mitigazione e all’adattamento al cambiamento climatico. Una novità è costituita proprio dalle misure previste rispetto ai problemi ambientali e disastri naturali. Ma mai le disuguaglianze. Come se le migrazioni internazionali avvenissero in un vuoto di rapporti tra paesi affluenti e paesi impoveriti ed emergenti. Di conseguenza non sono nemmeno sfiorate le relazioni inique che vanno da un sistema finanziario che facilita le fughe dei capitali e i paradisi fiscali ai trattati commerciali e di investimento che tutelano i diritti delle multinazionali ma non quelli dei cittadini. Nel Global Compact le migrazioni tra paesi avvengono come se queste relazioni inique non creassero le condizioni sistemiche che portano le persone a decidere di lasciare il proprio paese per cercare fortuna in altri lidi.

Il patto non è vincolante. Nessun paese è obbligato a realizzare le azioni indicate e inoltre non stabilisce alcuna quota o numero di migranti che i paesi devono accogliere. Tra i principi si riconosce infatti il potere sovrano degli Stati a decidere le proprie politiche migratorie. D’altra parte il patto cerca di promuovere il dialogo e la cooperazione tra gli Stati di origine, transito e destinazione in modo da scongiurare migrazioni irregolari e soprattutto il traffico degli esseri umani. La negoziazione degli accordi specifici di regolazione delle migrazioni rimane quindi in mano alla buona volontà degli Stati.

Regolazione che può essere oggetto di diverse interpretazioni e implementazioni, a seconda dei diversi interessi in gioco. L’applicazione del Global Compact può essere centrata di più sull’interesse degli Stati di destinazione a controllare e frenare le migrazioni, piuttosto che sui diritti dei migranti e sul loro contributo allo sviluppo sostenibile; o su quello dei paesi impoveriti a vedere salvaguardati i propri migranti nella loro capacità di sostenere le famiglie e le società nei luoghi di origine, e a inviare rimesse sotto forma di valuta pregiata per sostenere le bilance dei pagamenti.

Ovviamente la questione decisiva riguarda la definizione delle responsabilità condivise tra Stati di origine, transito e destinazione, per un equilibrio ragionevole tra diritto a lasciare il proprio paese (già riconosciuto nella convenzione internazionale sui diritti umani fondamentali) e diritto degli Stati a imporre restrizioni ai flussi per interessi nazionali. Tale questione non è decisa nel Global Compact ma si rimanda agli accordi di tipo regionale (come ad esempio l’accordo Shengen dell’Ue) e agli accordi bilaterali tra Stati (come quello dell’Italia con la Libia). In tal senso il compact rimane in una certa misura ambiguo perché può dare adito a diverse interpretazioni e diverse negoziazioni a seconda degli stati e interessi implicati.

Nel Dicembre del 2018 il testo finale è stato adottato a grande maggioranza.  152 Stati hanno votato a favore, 5 paesi contro (Repubblica Ceca, Ungheria, Israele, Polonia e Stati Uniti), 12 si sono astenuti (Algeria, Australia, Austria, Bulgaria, Cile, Italia, Latvia, Libia, Liechtenstein, Romania, Singapore and Svizzera), e 24 non hanno partecipato al voto. Il governo italiano ha deciso di astenersi in attesa che si pronunci il Parlamento. E’ evidente come vi sia una diversa visione del Global Compact tra la Lega e il Movimento 5 Stelle. Comunque il messaggio politico del governo italiano alle Nazioni Unite dimostra quantomeno dubbi, riluttanze e contrarietà, che sono di diverse forze politiche. Da un lato vi è chi denuncia l’ingerenza degli organismi multilaterali in decisioni che devono rimanere strettamente nazionali. D’altro vi è chi sostiene la necessità del dialogo e della cooperazione per poter gestire un fenomeno che è internazionale. Tutto è focalizzato sul governo più o meno restrittivo e di corto respiro delle migrazioni, senza attenzione verso quello che c’è dietro, e in particolare la diseguaglianza tra paesi e ceti sociali.

Nel caso in cui l’Italia decidesse di aderire, potrebbe rafforzare la sua richiesta di non venire lasciata sola nel gestire gli arrivi dei migranti. Questo consentirebbe di rafforzare il dialogo con i paesi europei (Germania, Francia, Spagna,  …) più consapevoli della necessità di creare una politica comune sulle migrazioni. Ma pur sempre restrittiva e orientata ad esternalizzare i controlli nei paesi di transito. Con promesse di Marshall Plan per l’Africa che non colgono le questioni di fondo, e cioè i rapporti economici e politici diseguali. Mentre la posizione nazionalistica e di contrasto alle migrazioni dei paesi del gruppo di Visegrad (dall’Ungheria alla Polonia,) li porrebbe ai margini dell’Unione, sancendo così una nuova divisione tra occidente ed oriente. In tutto ciò i diritti dei migranti, e la questione della disuguaglianza, rimarrebbero in secondo piano. Si rafforzerebbe inoltre l’accordo europeo con paesi autoritari come la Turchia, l’Egitto, l’Algeria, la Libia così come con paesi relativamente più democratici, Tunisia e Marocco, tutti disponibili a gestire le migrazioni per conto dell’Europa in cambio di maggiori aiuti, commercio, investimenti e riconoscimento politico. Ecco allora che il governo delle migrazioni potrebbe diventare un’occasione per questi governi di rilancio dello sviluppo e riduzione delle diseguaglianze, salvo la concentrazione di potere delle élite autoritarie e militari, e le loro collusioni con i perduranti interessi europei.

A loro volta alcune organizzazioni della società civile contestano il Global Compact perché, invece, non impone chiaramente il rispetto dei diritti dei migranti, condannando gli Stati inadempienti. Evidenziano inoltre come esso ponga troppe demarcazioni tra migranti regolari ed irregolari, limitando l’accesso a servizi fondamentali, e come sia troppo tenue rispetto alla criminalizzazione dei migranti, alla detenzione dei minori e allo sfruttamento dei migranti lavoratori. E, potremmo aggiungere noi, omette completamente il fattore disuguaglianza, e quindi la questione fondamentale della distribuzione del potere economico e politico a livello internazionale.

In generale, il ritiro di alcuni Stati dal compact, al di là della strumentalizzazione politica, si configura soprattutto come un attacco al multilateralismo, al dialogo tra stati con interessi diversi, ma che proprio per questo hanno bisogno di trovare un quadro di riferimento comune. Significativo il fatto che alla Conferenza delle nazioni unite tenutasi in Marocco per l’adozione del Global Compact, la Merkel abbia avuto una standing ovation del pubblico quando si è scagliata contro i nazionalismi. Infatti, senza un quadro di riferimento comune saranno soprattutto gli stati e le popolazioni più deboli e vulnerabili a subirne le conseguenze e i costi, aumentando le disuguaglianze. Senza una cooperazione internazionale fondata su principi di equità non esiste alcun governo giusto delle migrazioni, nessun riconoscimento dei diritti dei migranti.

E’ quindi grande il compito che attende le organizzazioni della società civile: quello di cercare di far valere i principi, gli impegni e le azioni che il Global Compact chiede per la salvaguardia dei diritti dei migranti (ancorché insufficienti) e per il riconoscimento e il sostegno a una vita dignitosa per tutti i migranti, in qualsiasi Stato sia concesso ad essi di risiedere, a partire dai gruppi più vulnerabili, donne e bambini. Stimolando al contempo la comunità internazionale a riconoscere la questione fondamentale delle disuguaglianze, collegando più strettamente il Global Compact all’Agenda 2030.

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