Tra i molti aspetti della povertà che emergono dal nuovo Rapporto Caritas ‘Tutto da perdere’ ce n’è uno che forse più di altri merita di essere sottolineato. Cogliamo ormai con chiarezza che ci troviamo in una situazione in cui la povertà è sempre più profonda è ‘strutturale’, e dove è sempre più chiaro il collegamento con una persistente disuguaglianza; già a partire da questa constatazione inziale non si può che chiamare in causa il funzionamento dell’intero sistema economico e sociale: siamo una società per la quale il persistere delle disuguaglianze sembra essere parte integrante del meccanismo, esse stesse spesso benevolmente giustificate come necessario carburante per il funzionamento della competizione ‘creativa’. Ecco, quello che sperimentiamo è che questa competizione ‘creativa’ lascia indietro molti, e che non è soltanto una risposta alle singole situazioni di deprivazione a porci di fronte a un dilemma; quanto la rettifica di sistemi in cui la competizione – sullo sfondo di meccanismi ormai largamente virtualizzati e finanziarizzati – si traduce in una sorta di Hunger Game globale, in cui la fatica di coloro che non riescono a correre si tramuta in stigma, variamente espresso a rimprovero dei vari ‘divanisti’ o ‘furbetti del reddito’: zavorra di una società altrimenti destinata a correre veloce. Senza peraltro che – per contrappasso – la stessa riprovazione si abbatta sulle aree dove si annida evasione ed elusione fiscale, cui si deve l’insostenibilità del sistema pubblico, cioè delle scuole, della sanità, dei sistemi di protezione sociale, dei servizi disponibili ad ogni fascia sociale.

Ma c’è una seconda dimensione che raramente viene apprezzata nella sua reale rilevanza: tutta la famiglia umana si trova nel pieno di una fase di transizione, che papa Francesco ha efficacemente definito un ‘cambiamento di epoca’. Un cambiamento più profondo e più veloce di qualsiasi altro sperimentato in passato, che forse cogliamo poco proprio perché vi siamo immersi completamente, ma che incide profondamente nelle nostre vite. Non si tratta neanche di un percorso deliberatamente intrapreso e ineluttabilmente destinato a produrre risultati positivi per tutti, come spesso viene raffigurata la transizione; elementi di transizione climatica, energetica, sociale, demografica, produttiva sembrano piombarci addosso senza che soprattutto le fasce più fragili abbiano modo di adattarsi ad essa: non transizioni diverse, ma intersezione di aspetti diversi di una gigantesca trasformazione che tocca tutto il pianeta e ogni angolo del pianeta.

La povertà è dunque oggi – forse ancor più che ‘strutturale’ – una ‘povertà di transizione’; vale a dire collegata soprattutto alla trasformazione complessa che la famiglia umana si trova a vivere. Ed è in questa chiave che possiamo leggere il rapporto della Caritas. Se la transizione demografica su cui siamo decisamente avviati dovrebbe imporci una cura e una valorizzazione particolare delle generazioni più giovani; vediamo invece come la persistente povertà delle giovani generazioni – nonostante esse tendano a diminuire quantitativamente! – sia una realtà che continua a caratterizzare la situazione che viviamo. E quale sistema produttivo può dirsi sostenibile quando relega una quota crescente della forza lavoro in occupazioni mal pagate e non in grado di offrire una risposta ai bisogni più elementari dei nuclei familiari? L’esistenza sempre più evidente di una fascia di lavoratori poveri, i working poor, non denuncia soltanto un ‘problema sociale’, ma un problema del sistema socio-produttivo nel suo insieme, in cui la concentrazione dei redditi più alti e la caduta delle tutele fa a pezzi la retorica della ‘flessibilità delle opportunità’: è noto il dramma dei disoccupati di mezza età espulsi dal sistema del lavoro oppure ormai rassegnati a condizioni ben lontane dall’idea di decent work; ma anche quello dei giovani che si trovano intrappolati in carriere lavorative frammentarie, lontane dall’essere sufficientemente remunerative, senza prospettive e senza identità sociale; destinati a riempire i ranghi di pensionati poveri e senza speranza di un futuro neanche tanto lontano.

Cosa dire infine del fenomeno della povertà energetica, che i nostri sistemi statistici non riescono ancora catturare in modo davvero rappresentativo, ma che nella rete Caritas territoriale rappresenta una realtà sempre più spesso all’attenzione? Occorre affermare con grande chiarezza che un consumo minimo di energia rappresenta un diritto di base del tutto ineludibile: per cucinare, illuminare, riscaldarsi, ma anche muoversi in un territorio dove all’investimento in mobilità locale si preferiscono in molti casi le paillettes e i brillantini di una mobilità superveloce, di ‘eccellenza’ (come si usa dire) e di prestigio. E invece la reazione è in molti casi legalitaria e sicuritaria, all’interno di una cornice di ‘regole’ che affidano alle forze di mercato il compito di risolvere i problemi. Ma in molti casi abbiamo capito che il mercato non è tenero con chi non è solvibile… E così si pagano le bollette per evitare un oneroso distacco delle utenze; ma si rinuncia a nutrirsi in modo appropriato e a tutte le spese ‘voluttuarie’ come ad esempio il curarsi in modo appropriato (proprio mentre il Sistema Sanitario Pubblico sembra messo in discussione…).

Anche in questo caso, non si può aggirare la necessità di affrontare la transizione energetica, all’interno della crisi climatica che viviamo; ma stupisce la quasi assente attenzione per l’impatto sociale di ogni misura e per la necessità di capire meglio chi sta pagando il prezzo più alto[1].

Occorre maturare in modo sempre più pieno una convinzione: non possiamo rispondere alle questioni che la realtà ci mette di fronte con risposte ‘vecchie’, che andavano bene per una situazione diversa. Le difficoltà di una risposta ‘strutturale’ alla povertà scontano il fatto che la ‘struttura’ con cui ci si misura è già cambiata, e sta cambiando sotto i nostri occhi: guardiamo questi cambiamenti senza riuscire a vederli, e riproponiamo ‘buone pratiche’ di un mondo che non esiste più. Con fatica ci misuriamo con un cambiamento che forse preferiremmo ancora negare, ma senza intercettare davvero l’emergere di una nuova realtà.

Vediamo questo disallineamento in controluce nel rapporto Caritas, (ma anche nei ‘soffitti appiccicosi’ del rapporto Caritas dell’anno scorso, con il suo focus sulla vischiosità della mobilità verticale, che rappresenta un altro invito a riflettere nella stessa direzione). Tanti sono gli indizi che le stesse dinamiche si stiano riproducendo a livello globale: andiamo verso un ‘vertice per il futuro’ presso le Nazioni Unite nell’autunno del 2024, in cui capiremo come i grandi decisori globali stanno affrontando la questione.

Cosa fare in quello che è un vero e proprio caso di studio di cambiamento ‘complesso’? Sono due le strade che si possono intraprendere: la prima è capire meglio cosa sta succedendo. Quali sono le grandi tendenze trasformative del nostro tempo, non scelte ma vissute per la maggior parte sulla difensiva, senza alcuna cura per l’impatto sui più fragili? E la seconda strada e quella dell’accompagnamento: come ‘star dietro’ a queste trasformazioni, e alle politiche spesso cieche rispetto agli effetti sociali di quanto viene fatto proprio in risposta ai cambiamenti che si sperimentano in modo sempre più impattante? C’è qui una differenza fondamentale tra un approccio ‘compensativo’, con il quale si cerca di dare una risposta di breve periodo; e la capacità di cogliere ed affrontare il ‘cambiamento di epoca’ che stiamo vivendo.

Comprendere ed accompagnare. Questo non può essere fatto senza una condivisione dei rischi, dei costi e delle opportunità che questa trasformazione porta con sé. Ma è l’unica strada per una società sostenibile nel futuro: rispettosa dei limiti del pianeta, ma capace di andare oltre un mondo – già oggi – profondamente segmentato e diviso.


[1] Vi sono molti esempi di questo tipo. Senza entrare in discussioni sulle virtù e sui difetti del sistema di incentivi del 110% la cosa che stupisce di più è la totale assenza di un meccanismo di monitoraggio strutturale alla misura stessa relativamente al suo impatto distributivo. Alla domanda: ma chi ha beneficiato veramente del 100%, l’unica risposta possibile è ‘in termini generali non lo sappiamo’. E così la maggior parte delle politiche vengono messe in opera senza attenzione agli effetti distributivi (e ‘predistributivi’).