Spesso ci diciamo che le politiche di sostenibilità sono necessarie per garantire uno spazio di sopravvivenza alle generazioni future. Ai nostri figli, Ma quali?

Prendo spunto da un articolo del Post, in cui si rileva come i paesi maggiormente concentrati su una retorica di ‘contrasto al calo demografico’ non riescano in realtà a mettere in campo politiche efficaci per ostacolarlo. Convegni, tra cui quello organizzato in Ungheria tra il 14 e il 16 settembre, hanno proprio lo scopo di porre all’attenzione questo tema, che segna in maniera importante le società di molti dei paesi del vecchio continente. Ma la demografia è una materia complessa: la struttura demografica di un paese è il risultato dell’interazione di moltissime variabili; e si presenta più come un dato risultante da processi economici, politici e sociali di diversa natura, che una variabile che possa essere facilmente manipolata.

E’ interessante però notare come le politiche di ‘recupero demografico’ vengano giustificate, almeno nell’Europa di oggi, come un imperativo necessario per difendere la nostra identità, e fare fronte all’invasione dei popoli che premono ai nostri confini. Si tratta in qualche modo, per come essa viene presentata, di una politica ‘di difesa’, associata in qualche caso addirittura alla ‘difesa di Dio’: un tema quindi – in questa interpretazione – legato strettamente a una forte pulsione identitaria di ‘difesa dei confini’; ma anche – volutamente – connotato attorno a una ben determinata cultura che utilizza la religione come strumento per i propri fini. In questo discorso di difesa, costruire e identificare il ‘nemico esterno’ è parte di questo racconto, ed in qualche modo necessario ad esso.

Senza evocare antichi richiami al ‘dare figli alla patria’, soprattutto in tempo di elezioni (quelle Europee verranno celebrate nel 2024), non si tratta di una strategia nuova: ‘sparare’ (metaforicamente…) fuori dei confini per ricompattarsi all’interno è una strategia cieca in prospettiva, ma profittevole nell’immediato. La controindicazione però è quella di rafforzare un sentimento di paura, anch’esso utile nell’immediato, ma problematico per le sue conseguenze: non è certo sulla paura – e ce lo dice la storia – che si costruiscono società prospere, accoglienti e sicure. Altri elementi di preoccupazione complicano gli scenari: è chiaro ormai che il cambiamento del clima è una realtà che non può essere negata. Al di là degli argomenti dei negazionisti o degli ‘inattivisti’ climatici, la preoccupazione per quello che avverrà (che sta già avvenendo!) si diffonde soprattutto tra i giovani, vale a dire la fascia della popolazione globale che subirà i contraccolpi più importanti della crisi climatica.

E certo non aiuta l’impressione di aver rimandato ogni vera svolta nelle politiche climatiche (responsabilità largamente condivisa da governi di ogni colore): difendere a spada tratta le rendite di posizione dell’industria estrattiva, mantenendo enormi sussidi ai fossili; rinviare l’uscita di scena delle auto inquinanti; invocare più cannoni sparaneve (quanto di meno sostenibile esista…) per mandare avanti l’economia delle zone sciistiche; rimediare all’indisponibilità di gas e petrolio russo con nuove trivellazioni e nuovo gas (trasportato per di più dall’altra parte del mondo…), evocare continuamente nuove e mirabolanti (ma purtroppo inesistenti) tecnologie che ci permetteranno di far fronte a ogni aumento nei consumi energetici. Sono tutte cose che contribuiscono a dare l’idea che chiudiamo entrambi gli occhi di fronte a quanto sta succedendo nel mondo illudendoci di poter continuare – business as usual – esattamente nello stesso modo di prima.

Ma lo stesso modo di prima non funziona più; è un modello ormai decotto da un punto di vista economico, tenuto in vita da abbondanti sussidi e dal mito della crescita economica, che svolge un ruolo di collante rispetto a tutte le contraddizioni che il nostro mondo ci mostra, e che finisce per rappresentare una risposta buona per qualsiasi domanda: più ricchezza, per pochi; oppure, meno ricchezza, ma quella che resta comunque sempre per pochi. Il sedimentarsi delle disuguaglianze – che questo modello porta con sé – è funzione dell’irrigidimento della mobilità sociale: chi è povero non vede la speranza di migliorare la propria posizione, e tutti temono invece di peggiorarla: una situazione che inasprisce i suoi effetti soprattutto in una situazione di veloce e poco governata transizione, dove le fasce più povere e i giovani pagano il conto di un cambiamento i cui tempi non sono certo dettati dai nostri tentennamenti.

Dunque, rimettiamo in fila il ragionamento. Da una parte il nostro mondo è arenato in una situazione di declino demografico cui sembra impossibile dare risposta, paradossalmente soprattutto nei paesi i cui governi rivendicano con maggiore forza la ‘famiglia tradizionale’. Dall’altra parte questi stessi paesi costruiscono le loro leadership sull’identificazione di nemici esterni e interni che minacciano lo stile di vita tradizionale; e sono quelli in cui più facilmente si mette in tensione un ‘limitato riconoscimento’ della realtà del cambiamento climatico, con una limitata disponibilità nel promuovere politiche di mitigazione climatica realmente efficaci, presentate come una minaccia al nostro stile di vita (piuttosto che una sterzata necessaria per allontanarsi da una strada non più percorribile). In un contesto del genere sembra che il tipo di attenzione nei riguardi delle fasce più povere, richieda sempre ‘misure draconiane’: più sanzioni, più controllo, più centri di detenzione…  Ma i ranghi delle persone più vulnerabili si allargano progressivamente; forse il – comprensibile – tentativo di ognuno è quello di ‘tirarsi fuori’, invocando ancora più controllo nei riguardi dei poveri che ci minacciano; ma sempre gli ‘altri poveri’, quelli a cui noi stessi – ostinatamente – non apparteniamo, e nel cui gorgo cerchiamo disperatamente di non venir trascinati…

Non credo che ci si possa aspettare che in una situazione del genere prevalga un sentimento di fiducia nei riguardi di un potenziale allargamento della famiglia. E si tratta di un ragionamento che va ben oltre l’esistenza di politiche pubbliche (assolutamente necessarie) di sostegno alla natalità, di sostegno al supporto ai nuclei e alle donne con figli piccoli, al loro inserimento nel mondo del lavoro. E’ facile pensare che chi ha paura, chi sente franare il terreno sotto i piedi, non voglia figli.

Il metodo che serve forse è un altro. Forse dovremmo chiederci come si fa a coltivare la speranza. E può darsi che sia la speranza, in un mondo che sta rapidamente prendendo una forma che ancora non conosciamo, a permettere la fiducia necessaria a mettere al mondo dei figli. Forse occorre guardare negli occhi le sfide che il nostro tempo ci impone, dalla mobilità umana al cambiamento del clima, consapevoli che è possibile affrontarle. Con realismo, ma senza paura.

Foto di copertina di Bonnie Kittle su Unsplash