Durante l’ultimo viaggio in Africa papa Francesco ha usato parole molto dure per condannare il neocolonialismo che caratterizza – purtroppo ancora – una gran parte dei rapporti tra il nord e il sud globale. Come ci ricorda Jason Hickel nel suo libro The Divide [1], è l’intero sistema economico in cui ci troviamo ad essere costruito su rapporti economici squilibrati, e a rigenerarsi in un continuo ciclo di diseguaglianze. Ma questo squilibrio strutturale non sarebbe possibile se non trovasse profonde radici nel nostro stesso immaginario collettivo, anche quando ‘a fin di bene’ nutriamo un pensiero che in ultima analisi è espressione di una rappresentazione neocoloniale del mondo.

E’ per questo pensiero che il bambino nero non può che essere malato e sofferente, che l’Africa non può essere che in preda alle siccità e alle carestie, che l’unica risposta possibile a questo patimento non possa essere che il nostro salvifico intervento, non tanto la richiesta di una maggiore giustizia globale. Dobbiamo notarlo: quanto diverse sono le parole del papa in Repubblica Democratica del Congo, quando richiama i ricchi della terra a maggiore rispetto, e tutti i poveri a prendere consapevolezza della propria dignità e valore… Ma sono parole, quelle di papa Francesco, poco adatte a sollecitare donazioni. Forse non deve troppo stupirci come, dopo un periodo in cui ha forse prevalso una modalità diversa, un po’ per pudore e un po’ forse per un clima culturale più attento a questi dettagli, torni uno stile di raccolta fondi che potremmo definire di ‘pornografia del dolore’.

Un gioco di prestigio che continua suggerendo l’idea di ‘cibi terapeutici’: il cibo – diritto umano fondamentale – che viene tecnicizzato ed estratto dagli squilibri e dalle ingiustizie che sottraggono ai poveri del mondo le risorse necessario a produrlo; restituendone un’immagine che ci evoca il camice bianco del personale medico messo in grado di amministrarlo se opportunamente donato da noi. Non certo l’immagine delle lotte per la terra dei pastori nomadi scacciati per far posto a un oleodotto oppure a una piantagione per carburante ‘green’ necessario a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità dell’Europa; non di quelle guerre combattute con armi prodotte per la stragrande maggioranza nel mondo ricco, e in ottima parte anche in Italia; non del cambiamento climatico di cui– lo vogliamo o no – siamo corresponsabili, con i nostri consumi individuali, ma più ancora con le scelte che con i nostri sistemi politici continuiamo a compiere, indifferenti alle sorti del pianeta e della famiglia umana. Nel ‘cibo terapeutico’ non c’è nulla di tutto questo; solo un meccanismo di evitamento cognitivo in cui possiamo distogliere l’attenzione dalle cause delle ingiustizie, purché la nostra donazione possa giungere a destinazione nel modo giusto.

Non discutiamo – ovviamente – l’efficacia delle azioni condotte con le risorse ottenute grazie alla forza disturbante di quei messaggi di miseria infantile e di disperazione abissale, la cui soluzione dipende solo da noi benevoli donatori del mondo ricco. Ma è un po’ come svuotare una barca usando secchi fabbricati con il legno del fasciame della barca stessa, che sventriamo ‘a fin di bene’ mentre essa affonda. Non è qui solo un tema di pecunia non olet, per il quale non ci si pone troppo il problema dell’origine delle risorse che utilizziamo per fare il bene (anche su questo si potrebbe argomentare…): quanto il fatto che il modo stesso in cui vengono sollecitate le risorse ‘per fare il bene’ rappresentano la più potente arma di distrazione di massa, efficace nel rafforzare lo stereotipo alla base stessa delle disuguaglianze e dell’ingiustizia. Letto sul piano della comunicazione pubblica non è un fenomeno così raro: gli imprenditori del dolore nel fundraising non sono così diversi dagli imprenditori della paura in politica. E’ lo spirito del tempo quello di forzare messaggi che nascondono la complessità e la nostra corresponsabilità, ma garantiscono un rapido ‘payoff’.

Questa contraddizione così lacerante non sembra però essere colta da molti: negli ultimi tempi solo da un articolo di Nigrizia che rilancia una denuncia delle Nazioni Unite, e un articolo di Avvenire, che elabora sullo stesso tema. Forse invece qualche domanda dovremmo farcela; ma ci siamo un po’ abituati a questo modo di rappresentare il mondo, accettando che sia uno stereotipo a guidare la nostra rappresentazione del sud globale. Lo accettiamo e lo rivendichiamo, in nome del ‘diritto di rappresentare la realtà’… anche se di questa realtà finiamo per fornire solo un volto funzionale ai nostri fini, in cui a chi è rappresentato non lasciamo troppo spazio per obiettare.

Come ci sembrano lontani i tempi in cui sostenevamo appassionati la necessità di usare una ‘Carta di Peters’ più rispettosa dell’estensione territoriale dei paesi del sud globale, metafora e immagine dell’estensione dello spazio di attenzione che ad esso dedicavamo; quando il solo accenno alla parola ‘sviluppo’ ci suscitava mille distinguo sul rischio di veicolare con essa una vera e propria ‘occidentalizzazione del mondo’; e sembra proprio un’altra epoca quel 1990 in cui venne firmata la ‘Carta di Treviso per una cultura dell’infanzia’ in cui si ricorda che “…nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi ad un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona”. Siamo in un’altra epoca, e certe attenzioni sembrano essere diventate poco più che sofismi. Siamo tornati tutti ad essere un po’ più neocolonialisti. Ma solo a fin di bene.


[1] Hickel, J. (2018). The divide: Guida per risolvere la disuguaglianza globale. Il saggiatore.

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