Forse sottotraccia, ma in maniera assai evidente, il cibo sta diventando in questi mesi un oggetto simbolico sempre più importante. È uno dei segni dei tempi in cui viviamo: mentre aumentano le disuguaglianze e la povertà, l’accesso al cibo diventa un tema di riferimento, reinterpretato alla luce del tempo che cambia.

Il cibo è un prodotto che vorremmo sano. Rivendichiamo il cibo sano, quasi come un privilegio “nazionale” che dobbiamo proteggere dagli attacchi esterni (abbiamo anche un Ministero della Sovranità Alimentare! Anche se poi nella pratica, come riferisce Greenpeace non ci si fa scrupolo nel liberalizzare pratiche tecnologiche che di “sovrano” hanno ben poco…). E non importa se i prodotti alimentari di “eccellenza italiana” diventino merci necessarie alla nostra economia, ma a partire da filiere produttive opache, che scaricano sul resto del mondo il costo nascosto dei nostri consumi, come nei ben documentati casi della bresaola, o del pomodoro. Si moltiplica l’appello al “bio”, ma questo in molti casi non rappresenta una risposta convincente ai problemi posti da un modello di consumo insostenibile, come ben raccontato da un recente articolo di AltrEconomia sulle produzioni avicole ‘biologiche’ su larga scala.

Il cibo è anche il simbolo dell’umanitarismo, di una fraternità che si sostanzia con un pacco di generi alimentari consegnati rigorosamente da “volontari”. L’approccio che si veicola è però quello di una fraternità totalmente “apolitica”, dove non c’è alcuno spazio per riflettere sul perché i poveri sono e rimangono tali. Elucubrazioni di questa natura avrebbero bisogno di altro impegno: di nutrire una cittadinanza militante, che non appiattisce la complessità delle poste in gioco sul “lavoro dei volontari”, che in questo modo vede svilito anche il proprio contenuto di militanza sul piano politico e sociale. Forse c’è bisogno invece di cogliere elementi complessi, metterli in relazione tra loro, dialogare in modo esigente con le istituzioni. Cos’è la fraternità? Un pacco di viveri consegnato da un volontario? O anche la solidarietà attiva con un popolo cacciato dalle sue terre in nome dello sviluppo, o con gli operai senza stipendio di un impianto produttivo passato di mano troppe volte, senza alcuna cura per persone e opportunità?

Il cibo non può essere sprecato. E si moltiplicano le iniziative per recuperare tutto questo “ben di Dio”, al punto da farne anche una legge dello stato, con il Reddito Alimentare. Piuttosto che sprecarlo, diamolo ai poveri! Giustissimo, ma forse stiamo tornando indietro a un’idea di povero che non ha bisogno di uno spazio (né noi di capire perché è diventato o rimasto povero – che tra l’altro se è povero sarà anche un po’ responsabilità sua…), ma di un po’ di cibo, quello eccedente dai nostri consumi. E nessuno che si ponga una domanda forse troppo semplice per avere una risposta: ma è sano un sistema che produce così tanto spreco ed eccedenze? Ottima l’idea di recuperare gli avanzi, ma non sarà il caso di chiedersi perché produciamo sistematicamente molto più di quello che deve essere consumato? Producendo in eccesso, non facciamo altro che accelerare l’erosione delle basi del pianeta e di accelerare il cambiamento climatico: al di fuori di qualsiasi idea di sostenibilità… Ma se poi lo diamo ai poveri forse non è neanche così necessario limitare queste eccedenze! Così tra l’altro evitiamo il disturbo della rabbia dei poveri, purché si accontentino di quel poco.

Se è possibile produrre cibo in eccesso, magari a basso costo e di basse qualità nutrizionali, scaricandone i costi sociali e ambientali su qualcun altro, perché non farlo? Soprattutto se questa diventa l’ingranaggio di un sistema “virtuoso” di recupero, e consumato da chi in realtà non ha alcuna voce per scegliere o definire modelli produttivi e di consumo. La disuguaglianza nell’accesso al cibo diventa disuguaglianza di voce, nel decidere quali sistemi alimentari vogliamo: se il sistema funziona bene, non ci sarà nessun particolare bisogno di dare la voce proprio a quel “qualcun altro”. E dunque diventa naturale affidare ad esempio l’organizzazione del prossimo vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari proprio al nucleo di fondazioni e imprese private che in questo settore hanno importanti interessi. Nessun conflitto tra questi interessi e il ruolo di decisore viene riconosciuto, nessun reale potere di interlocuzione democratica che veda la partecipazione paritaria dei governi , come racconta questo articolo, che mette in rilievo le contraddizioni che anche nel processo che condurrà al prossimo Vertice sui Sistemi Alimentari, che si terrà a Roma alla fine del luglio prossimo. L’idea che il cibo sia soprattutto un bene comune e un diritto di ogni persona, suona leggermente distonica.

Il mondo funziona così. Ma per quanto tempo riuscirà a mantenere un suo equilibrio? Le statistiche ci dicono di un trend ormai consolidato di aumento della fame sul pianeta; e allo stesso tempo di aumento della prevalenza di sovrappeso/obesità, sintomo di sovranutrizione – o meglio: di cattiva nutrizione. L’aumento delle disuguaglianze spinge sempre più persone verso modelli alimentari a basso contenuto nutritivo prodotto in base ad un mercato i cui protagonisti vengono chiamati in modo sempre più insistente ad essere protagonisti nei luoghi in cui si determinano le regole del gioco…

È un circolo vizioso, che ha molte cause. Ma è necessario invertire la tendenza, rimettendo al centro l’idea che il diritto al cibo è un diritto umano, e che il cibo deve essere prodotto senza mettere in pericolo la salute delle persone e del pianeta.