Il 20 giugno è la giornata internazionale del rifugiato. Ed è una giornata fondamentale per tutti, per fare memoria dell’importanza di proteggere e tutelare la diversità di ogni uomo. Perché i rifugiati sono quelle persone che a causa di diversità, naturali, ontologiche, proprie di ogni essere umano (come la diversità etnica, politica, religiosa, di orientamento sessuale), vengono perseguitate all’interno dello Stato di cui sono cittadini o in cui vivono. Perché i rifugiati sono uomini e donne che non si uniformano al pensiero dominante, mainstream di una società che invece di accogliere, trasforma le diversità in differenze. Questi ultimi due termini non sono infatti equivalenti: se le diversità, cartina tornasole di una società sana, non vengono tutelate si trasformano in differenze, che sono la base per la creazione di una società diseguale. Un fatto che contrasta con i principi espressi nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dove si legge che tutti gli uomini nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Purtroppo ci sono interi popoli che a causa di guerre sanguinose, durature, vengono perseguitati per le proprie diversità, costretti a vivere da anni la condizione di rifugiati. Fra questi il popolo palestinese, secondo per numero di rifugiati soltanto alla nazione siriana in guerra dal 2011: secondo le stime dell’UNRWA, (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nella regione Mona) su una popolazione palestinese complessiva di 13.5 milioni di persone, i rifugiati tutelati dall’Agenzia ONU per i palestinesi sono circa 5.6 milioni. Senza dimenticare che i palestinesi rifugiati vivono tale condizione da oltre 73 anni; da quando nel maggio del 1948, in seguito al primo conflitto israelo-palestinese vennero espulsi dal territorio della Palestina mandataria, oltre 750.000 arabi costretti a lasciare le loro abitazioni. A cui finora, non hanno mai fatto ritorno.

Il problema quindi è che la diversità del popolo palestinese, diventata parte integrante del conflitto fra Israele e Palestina, è stata pericolosamente trasformata in differenza. Una differenza che nello specifico colpisce, in maniera molto dura, i rifugiati palestinesi sotto una molteplicità di aspetti. A partire dall’integrazione sociale nei contesti di accoglienza.

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Essere rifugiati palestinesi: il dolore della discriminazione. IL caso del libano

Milioni di rifugiati palestinesi che vivono al di fuori dei Territori Palestinesi Occupati (vale a dire Cisgiordania e Striscia di Gaza), ospitati in Paesi Terzi, subiscono discriminazioni che li pongono ai margini della società. Se questo è il caso della Giordania dove i rifugiati della Palestina sono circa 2.3 milioni, le condizioni peggiorano decisamente in Libano. Nella Terra dei Cedri circa la metà, il 46%, degli oltre 476mila rifugiati, vivono ammassati nei 12 campi profughi distribuiti in Libano; dei non luoghi diventati delle vere e proprie cittadelle della disperazione in cui il sovraffollamento ha raggiunto proporzioni estreme; la mancanza di acqua potabile e di sistemi fognari non fa che aggravare i molteplici problemi sociali ed economici di questi campi, insalubri e infestati dalle malattie. Il conflitto in Siria ha inoltre costretto molti profughi palestinesi dalla nazione siriana fuggire in Libano in cerca di sicurezza. Quasi 29.000 persone ricevono assistenza (economica, sanitaria, scolastica e di protezione) diretta dalle Nazioni Unite. I governi libanesi si sono inoltre rifiutati di ricostruire o di rimodernare i campi e le infrastrutture fondamentali distrutti da decenni di guerre interne e di invasioni straniere. Ai palestinesi, di norma, è anche negato il diritto di costruire nuovi campi o di ampliare quelli esistenti, senza dimenticare che i palestinesi non possono possedere per legge proprietà immobili. Solo poche migliaia di palestinesi hanno ottenuto la cittadinanza libanese, i cui diritti e le cui libertà sono stati negati ai rifugiati. I palestinesi esuli in Libano sono così, da un punto di vista legale, stranieri e come tali risultano esclusi da molte professioni: ben 39 secondo i dati dell’UNRWA. In conseguenza di una endemica discriminazione, devono affrontare elevatissimi tassi di disoccupazione, mentre cresce il fenomeno del lavoro minorile.

Tuttavia una nuova ondata di crisi in Libano ha investito, con maggior violenza la popolazione più vulnerabile: in particolare i migranti, siriani e palestinesi. La situazione ha iniziato a deteriorarsi da ottobre 2019: le proteste, poi il default, la pandemia e l’esplosione al porto di Beirut. Tra i palestinesi, esclusi dall’esercizio (come detto sopra) di 39 professioni, il tasso di disoccupazione è schizzato al 90%, dice l’ultimo rapporto dell’associazione palestinese Beit Atfal Assumoud: l’86% lavora senza contratto. Chi, la maggior parte, percepisce il salario in lire libanesi, non ce la fa a far fronte alle spese: i prezzi alle stelle (aumenti del 400%) e la lira al collasso (ha perso il 90% del suo valore) stanno divorando gli stipendi.

I rifugiati palestinesi nella prigione a cielo aperto di Gaza

E la situazione di certo non migliora nella Striscia di Gaza, dove l’ultimo conflitto con Israele ha gettato ulteriore benzina sul fuoco della povertà. A Gaza, grande più o meno come la provincia di Prato, vivono ammassate 1.9 persone, delle quali 1.4 milioni sono rifugiati palestinesi. Anni di conflitto e blocco hanno lasciato l’80% della popolazione dipendente dall’assistenza internazionale, mentre le continue divisioni intra-palestinesi contribuiscono ad esacerbare la crisi umanitaria e di fornitura di servizi sul campo. L’economia e la capacità di creare posti di lavoro sono state devastate, con conseguente impoverimento e decrescita di una società altamente qualificata e ben istruita. Il numero di rifugiati palestinesi che dipendono dall’UNRWA per gli aiuti alimentari è aumentato da meno di 80.000 nel 2000 a quasi un milione di oggi. L’accesso all’acqua pulita e all’elettricità permane a livelli di crisi e influisce su quasi ogni aspetto della vita quotidiana a Gaza. L’acqua pulita/potabile non è disponibile per il 95% della popolazione e la fornitura di elettricità è migliorata solo di recente, passando da 4-5 ore al giorno negli ultimi mesi a un massimo di 12 ore al giorno dall’ottobre del 2018. Tuttavia, la carenza di energia in corso, unita all’ultime recrudescenze del conflitto con Israele,  ha gravemente compromesso la disponibilità dei servizi essenziali, in particolare la sanità, l’acqua e i servizi igienici, e continua a minare la fragile economia di Gaza.

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Le diseguaglianze si combattono con l’impegno politico

Quelle finora descritte sono tanti, differenti scenari, in cui i palestinesi vivono situazioni di differenza. E il vero problema di questa mancata uguaglianza, è l’assenza di una volontà politica di risolvere la questione dei rifugiati palestinesi. Quest’ultima non può essere più affrontata solo dal punto di vista umanitario: nonostante il lavoro lodevole dell’UNRWA, c’è bisogno di una scelta politica, che riunisca la comunità internazionale intorno all’obiettivo comune di finanziare la pace, partendo dalla risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Come ha recentemente espresso l’Allmep,  l’Alleanza per la Pace in Medio Oriente, la maggiore e più dinamica rete di Ong in Israele e Palestina. Dopo settimane di guerra devastante che ha causato la morte di centinaia di persone, ivi compresi bambini, una coalizione di organizzazioni apartitica e multinazionale si è appellata alla comunità internazionale affinché dia priorità al finanziamento immediato del consolidamento della pace in Israele e Palestina.

E l’Allmep fa appello ai governi italiano e statunitense affinché diano avvio ad un Fondo Internazionale per la Pace israelo-palestinese, un fondo concepito al fine di abbattere le barriere di sfiducia fra israeliani e palestinesi attraverso l’impegno civico e i programmi people-to-people, rivolti ad aprire la strada alla possibilità di una pace sostenibile. In sostanza dal 1950, quando anche il già citato UNCCP venne definanziato (e con questo il suo ruolo politico) non si investe più congiuntamente, a livello internazionale, nella soluzione politica della questione palestinese. Invece rimane in piedi solo l’UNRWA che molto richiama la figura leggendaria di  Hans Brinker, il bambino olandese che restò per una notte intera con il dito infilato nella fessura di una diga per impedire che il mare allagasse le campagne coltivate e il villaggio. E ve lo tenne, il dito, fino a che non accorsero gli uomini a riparare la falla. Il problema è che da decenni non accorre nessuno ad aiutare, e la “falla” palestinese è diventata una vera voragine dalla quale straripano oltre 5 milioni e mezzo di palestinesi che reclamano il diritto di tornare nella loro terra e di essere riconosciuti. Hans Briker ormai, non basta più.

Per approfondimenti puoi scaricare il Dossier Documenti e Testimonianze “Una vita da rifugiati. Il conflitto israelo-palestinese e la tragedia di un popolo esule”