Ormai tutti sono consapevoli di quella che può essere definita “emergenza climatica” che rischia di creare nuove povertà e diseguaglianze. Un esempio: condotti con l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), gli studi sulla morfodinamica costiera gettano luce su fenomeni estremi di erosione costiera ed innalzamento del livello del Mediterraneo. Esacerbati dall’impatto antropico, tali fenomeni potrebbero provocare la sommersione di 33 aree a rischio entro il 2100. I geomorfologi italiani hanno registrato una forte erosione su oltre 1.500 km di coste ed addirittura, in alcune aree della Puglia, arretramenti delle spiagge di 10 metri, un dato che desta preoccupazione anche per l’alta probabilità che tale fenomeno (già precedentemente segnalato dal Ministero dell’Ambiente) continui nei prossimi anni.

Erosione costiera, l’innalzamento del livello dei mari, il depauperamento delle risorse idriche, alluvioni, terremoti, frane e valanghe, sono un segno tangibile del peggioramento delle condizioni socio-ambientali del pianeta, un trend globale che richiama l’urgenza di misure concordate a livello multilaterale. La Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) nel corso degli ultimi anni ha non solo reiterato gli allarmi e le analisi, ma anche la molteplicità di cause e le conseguenze dirette ed indirette dei cambiamenti climatici sul pianeta, ma soprattutto l’urgenza di azioni decisive e strategie multilaterali per contrastare, fra gli altri, il riscaldamento globale e l’aumento delle emissioni globali di anidride carbonica.

Nonostante il persistere di correnti pseudoscientifiche revisioniste, o peggio negazioniste, sull’aumento delle temperature a livello planetario e il mancato rispetto degli impegni internazionali, la comunità scientifica è oggi concorde non solo nel validare le tesi sul cambiamento climatico, ma anche nel sottolineare le correlazioni tra attività antropica, ambiente e sicurezza globale e i costi in termini umanitari derivanti dall’assenza di misure di mitigazione dei rischi ambientali. L’impatto di catastrofi naturali provoca ogni anno decine di migliaia di morti, perdite finanziarie sempre più consistenti (sull’ordine di 300 miliardi di Euro), milioni di sfollati, secondo alcuni studiosi ben superiori all’impatto di guerre e conflitti sui movimenti migratori.

Di anno in anno si battono nuovi record, con uragani sempre più devastanti in particolare su Caraibi e nord America, ma anche nel sud e sud-est asiatico (India, Bangladesh e Filippine), inondazioni, alluvioni e frane in tutto il sub-continente indiano, siccità prolungate, erosione del suolo, desertificazione e cambiamento dei regimi di piovosità soprattutto in Africa. Nel corso degli ultimi anni fenomeni di siccità acuta si sono registrati anche in Brasile (principalmente nel sud-est del Paese) e negli Stati Uniti (ad esempio nello stato di New York e in California), così come i rischi ambientali hanno avuto – e continueranno probabilmente ad avere sempre più – conseguenze dirette sul benessere di intere popolazioni; vi sono addirittura aree del pianeta che rischiano di scomparire in assenza di misure urgenti e strategie comuni. È il caso per esempio del sud-est asiatico e in particolare di Paesi quali le Maldive, l’Indonesia e le Isole Salomone che – in conseguenza dell’innalzamento dell’Oceano Pacifico – rischiano di sparire dai mappamondi di fine secolo: cinque delle Isole Salomone sono già ricoperte completamente dalle acque, mentre 2.000 isole dell’Indonesia e quasi 1.000 dell’arcipelago delle Maldive potrebbero inabissarsi entro il 2100, nel caso i trend registrati venissero confermati nei prossimi decenni.

L’analisi delle banche dati sul livello di rischio umanitario correlato alla vulnerabilità ambientale dimostra come l’impossibilità di isolare e quantificare gli effetti diretti dei cambiamenti climatici si traduca, piuttosto che nella negazione del loro impatto sulla società in senso lato, nella necessità di esaminare le complesse dinamiche che intercorrono tra ambiente, sicurezza e governance globale. Ad esempio, le ultime edizioni sia del Global Climate Risk Index sia del Climate Change Vulnerability Index indicano tra i Paesi più a rischio Haiti, già fortemente caratterizzata da povertà e diseguaglianze, dove eventi naturali estremi quali terremoti e uragani si affiancano a fenomeni di clientelismo politico, sperpero di denaro pubblico e corruzione.

Allo stesso modo, l’indice aggiornato della fragilità statuale classifica tra i Paesi più vulnerabili il Sud Sudan, la Somalia e lo Yemen, contesti dove non casualmente si sono registrate anomalie ambientali importanti nel corso degli ultimi anni. Tutto ciò a testimonianza dell’esistenza di sempre più ricorrenti emergenze complesse non riconducibili semplicemente a fattori univoci, ma bensì a molteplici concause, che in maniera composita e multiforme concorrono all’emergere di situazioni di crisi politiche, socio-economiche ed ambientali, la cui componente umanitaria richiama insistentemente l’attenzione di una comunità internazionale apparentemente sempre più distratta.

Eppure l’introduzione di dimensioni pertinenti alla resilienza ai cambiamenti climatici nelle strategie internazionali di peacekeeping e state-building era stata celebrata nel 2015 come una possibile soluzione per il superamento di situazioni di estrema fragilità, un concetto recentemente entrato a pieno titolo nella cosiddetta climate diplomacy dell’Unione Europea.

Nell’attesa dei prossimi summit multilaterali sull’ambiente, oltre ai nuovi movimenti dei giovani – quasi a sottolineare una sorta di conflitto generazionale – riecheggiano ancora i moniti di Papa Francesco contro la passività, l’ostinazione e l’indifferenza della comunità internazionale in materia.