Si susseguono le notizie di nuovi record (tutti negativi) e nuove minacce, su scala globale e regionale, che segnano un mondo quanto mai diviso e diseguale.

Sono oltre 12 mila i bambini rimasti uccisi e feriti nei conflitti armati e dimenticati nel corso dell’ultimo anno. Il dato, reso noto recentemente (a fine luglio) dalle Nazioni Unite, costituisce una “cifra record” ed evidenzia quanto sia oggi instabile e frammentato il mondo, segnato da una “guerra mondiale a pezzi”: Afghanistan, Terra Santa, Siria, Yemen sono i luoghi più pericolosi dove crescere. Ma è tutto il pianeta a non conoscere pace, tra dispute, nuovi attriti, vere e proprie guerre, a livello locale e regionale.

Una nuova minaccia, che fa il paio con il record precedente, incombe sull’Europa da inizio agosto, quando la nostra “regione” è priva dell’ombrello protettivo del trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), che proibiva lo sviluppo, la produzione e il dispiegamento di missili balistici o da crociera a corto e medio raggio. Il rischio è quello di una nuova corsa al riarmo tra Washington  (appoggiata dalla NATO) e Mosca, di per sé già in atto su scala globale. Infatti tutti gli istituti di ricerca continuano da anni a registrare nuovi record anche per quanto riguarda il continuo aumento della spesa militare.

Ora, è evidente che le armi non sono solo un mezzo con cui si combattono le guerre, ma anche un fattore causale delle guerre stesse, con tutte le inevitabili conseguenze. Ecco che i due record sono anche due facce della stessa medaglia, due aspetti strettamente correlati, un binomio indissolubile e mortale. Muoiono i bambini nei conflitti armati, proprio perché proliferano armi da Nord a Sud, da Est a Ovest.

Il risultato finale? Il mondo non è mai stato così violento: questo è il dato “macro” che emerge prepotente dall’ultima edizione del Global Peace Index, l’indice che misura la propensione alla pacificità di 163 Stati e territori su scala globale. La comprensione delle dinamiche di conflitto e crisi – che tormentano non solo il teatro mediorientale, ma anche regioni comunemente considerate “sicure” e “stabili” – non può prescindere dall’analisi dei flussi – leciti e illeciti – degli armamenti: chi vende, chi compra, quali arsenali si fabbricano, quanto si spende. Si tratta, in altre parole, di “seguire il denaro” legato al settore armiero e ai traffici di equipaggiamenti militari – la cui domanda è in continua espansione. I programmi nazionali di potenziamento militare, i flussi transnazionali di armi, il lancio e/o il prolungamento di operazioni militari internazionali e multinazionali sembrano non riflettere né i vincoli economico-finanziari (compressione dei bilanci statali, misure di austerity, deprezzamento degli idrocarburi, ecc.) né quelli normativi (strumenti di governance, misure di embargo, regolamentazioni del mercato armiero adottati sia a livello nazionale che regionale/internazionale). Nulla frena le armi e dunque la violenza dilaga.

Anche a livello di cooperazione internazionale allo sviluppo si segnano nuovi record. Negativi.

Gli aiuti da donatori pubblici nel 2018 sono diminuiti del 2,7% rispetto al 2017, con un calo della quota destinata ai paesi più bisognosi.

Questa tendenza globale trova riscontro anche con quanto avviene in Italia. Nell’ambito dell’Agenda 2030, l’Italia ha assunto l’impegno di raggiungere lo 0,7 nel rapporto tra aiuto pubblico allo sviluppo (APS) e il reddito nazionale lordo (RNL) entro il 2030. Era stato poi fissato anche un obiettivo quantitativo intermedio dello 0,30 entro il 2020. Nel 2018 si è invertito il trend e i fondi destinati alla cooperazione sono scesi allo 0,24% del Reddito Nazionale Lordo. Le aspettative per una crescita dell’APS italiano risultano pertanto fortemente ridimensionate, anche a seguito della legge di bilancio, dove si prevede un ulteriore calo dell’impegno finanziario tra il 2019 e il 2020 dell’8,3%.

Occorrono invece nuovi record. Di pace e di solidarietà. Nuove narrazioni. Nuovi orizzonti. Un’inversione di tendenza. Chiudere questa forbice che allontana sempre più le dichiarazioni formali dalla realtà.

Tra le poche voci fuori dal coro, quella di Papa Francesco continua a denunciare tali situazioni, forte dei dati e delle testimonianze che arrivano da ogni angolo del pianeta, e lanciare – appunto – nuove prospettive. Di cambiamento.

La dottrina sociale della Chiesa, e in particolare la prospettiva dello ‘sviluppo umano integrale’, rappresenta una cornice ampia e organica entro cui collocare la riflessione sul cambiamento necessario che integri locale e universale, includendo tutti i popoli della terra. Nella continuità di un ricco Magistero attento alla questione della pace, ma con l’attenzione derivante dai risultati dei più recenti dibattiti circa lo stato del nostro pianeta.

L’idea di ‘conversione ecologica’ invocata dall’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco, mette all’attenzione dell’intera famiglia umana una realtà semplice nella sua chiarezza, anche se portatrice di implicazioni complesse: “Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura.” (LS 139)

Tutto è connesso e la pace è la punta di un iceberg. Sotto, vi sono verità, giustizia, libertà, carità, frutto di responsabilità dirette e indirette, cura della casa comune, disarmo, governance della finanza, lotta alla povertà e alle diseguaglianze, ecc.

Occorre davvero cambiare passo. Per raggiungere altri tipi di record.