Il reddito di cittadinanza è attivo dal 2019 ed è fuori di dubbio che esso abbia avuto un ruolo strategico in questi ultimi e duri anni, contribuendo ad evitare che la crisi sanitaria degenerasse anche sotto il profilo sociale. Esso, quindi, come è servito nel recente passato, servirà in futuro, anche in vista di una ripartenza del Paese, perché nessuno dovrà essere lasciato solo di fronte al proprio destino e alle difficoltà indotte da eventi difficilmente controllabili.

Sappiamo che il Reddito di Cittadinanza ha molti detrattori che vorrebbero eliminarlo. L’Alleanza contro la povertà, di cui anche le Acli sono promotrici, invece, sostiene la tesi opposta, ossia che esso debba essere non solo mantenuto, ma rafforzato e ulteriormente finanziato. Ciò però non senza cambiamenti.

Uno dei punti su cui il RdC sembra mostrare i suoi limiti maggiori è il lavoro. In generale, le misure contro la povertà assoluta non sono proprio assimilabili alle politiche attive del lavoro. Tuttavia, ciò non ha impedito di pensare ai beneficiari (più precisamente quelli che firmano il patto per il lavoro) come a cittadini che possono essere attivati e avviati ad una nuova occupazione. Un obiettivo quest’ultimo assai difficile, che trova il suo limite, oltre che nelle difficoltà della pubblica amministrazione italiana (tradizionalmente poco efficace da questo punto di vista) e nella crisi che stiamo attraversando, anche nel profilo sociale stesso dei percettori del RdC: circa la metà di quelli che dovevano sottoscrivere i patti per il lavoro non era occupata da almeno 3 anni e un terzo non aveva mai lavorato in vita sua.

Sul piano dell’attivazione e dell’avviamento lavorativo, dunque, la strada intrapresa con la misura in questione è piena d’ostacoli, ma non deve essere abbandonata proprio adesso. Ciò soprattutto perché nei prossimi anni la povertà è destinata ad aumentare e a cambiare in parte le sue forme, attecchendo anche in quelle fasce della popolazione che fino a pochi mesi fa un lavoro ce lo avevano. Secondo l’Alleanza contro la povertà, infatti, “la platea potenziale di percettori del RdC [aumenterà] dell’8,6%, pari a 160.000 nuclei familiari […]. I nuovi beneficiari sono più giovani dei precedenti, ci sono meno stranieri e aumentano i nuclei con due figli a carico. Sono meno al Sud e di più al Centro e al Nord. Aumentano i nuclei monoreddito da lavoro dipendente e i lavoratori autonomi: il 64% dei nuovi nuclei beneficiari contiene al proprio interno almeno un lavoratore autonomo, a fronte del 15% nella platea precedente. Rispetto [alle persone] sin qui entrate nel RdC, i nuovi beneficiari potenziali lavorano molto più di frequente nei settori del commercio, della ristorazione e alberghiero”. È chiaro, quindi, che in futuro si dovrà lavorare molto di più e meglio su questi profili aumentandone, quando possibile, l’occupabilità. Si dovrà altresì lavorare sulle compatibilità del reddito di Cittadinanza con il lavoro; esso dovrà stimolare la ricerca di nuovo lavoro, senza entrarci in concorrenza.

La questione lavoro, pur importante, non esaurisce le criticità della misura. Al contrario sono diverse le cose che non hanno funzionato bene. Ad esempio, quando il capo famiglia è extracomunitario l’accesso alla misura è consentito soltanto se questi risiede in Italia da più di 10 anni e almeno due consecutivamente. Così concepito il RdC esclude una parte importante di poveri non italiani, che pure ne avrebbero diritto se si valutassero soltanto i parametri monetari. Bisogna notare che il nostro Paese è l’unico in Europa a adottare vincoli così stringenti. È il caso, quindi, di ridurre questo periodo di permanenza a due anni, il minimo necessario per evitare atteggiamenti dettati dall’opportunità più che dalla necessità.

Un altro aspetto da modificare è la scala d’equivalenza che dovrebbe essere riformulata usando quella dell’Isee in modo da non penalizzare le famiglie numerose e/o con figli minori. Anche i parametri reddituali e patrimoniali particolarmente stringenti rischiano di lasciare fuori tutti quei cittadini che hanno risparmi leggermente superiori alla soglia consentita.

Nel rimettere mano alla misura dovremo tener conto anche di molte questioni pratiche che ne hanno ridotto l’efficienza. Ad esempio, si sa che molti cittadini hanno avuto difficoltà nel compilare la domanda. Sarà opportuno, quindi, immaginare dei servizi di “accompagnamento leggero” in grado di guidare i potenziali beneficiari nella compilazione. Infine, sempre sul piano dell’efficienza, sarà opportuno lavorare pure sulla comunicazione tra CPI e servizi sociali comunali, che non sempre sono riusciti a collaborare pienamente tra loro. Infine, se vogliamo veramente che la misura funzioni, nel prossimo futuro, dovremo impegnarci a mettere a frutto le potenzialità del sistema pubblico, mettendo tutti gli operatori nelle condizioni di lavorare bene e favorendo l’interscambio di informazioni tra i vari settori.

L’esperienza di questi anni ci dice che il Reddito di Cittadinanza è uno strumento valido, che però necessita di alcune modifiche che lo facciano migliorare sia sul piano dell’efficacia sia su quello dell’efficienza. Non merita di essere eliminato o depotenziato, al contrario va ulteriormente sostenuto in modo che possa produrre i suoi migliori risultati.

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