In vista delle elezioni politiche le forze sociali hanno ripetutamente avanzato appelli ai partiti perché fossero inseriti nei programmi o, almeno, dibattuti alcuni temi. Gli appelli – tra cui ve ne sono alcuni sottoscritti o promossi dalle associazioni della rete di Chiudiamo la forbice – sull’astensionismo, contro le armi nucleari, per contrastare le povertà, per l’istituzione di un Ministero della Pace – testimoniano alcuni elementi di svolgimento del rapporto tra sistema rappresentativo e cittadini.

In primo luogo, come avviene per questa Campagna, essi non sono il frutto estemporaneo di un momento, ma di percorsi della società civile che, da tempo, cerca di creare alleanze per trovare soluzioni ai problemi sociali del nostro Paese e, in particolare, di porre rimedio a quelle diseguaglianze sostanziali che impediscono il pieno sviluppo di ogni persona. In questo senso, sembra di poter registrare il superamento di alcune rigidità del passato e una collaborazione tra le forze sociali più approfondita e trasversale ai mondi culturali.

Gli appelli in vista del voto rappresentano, d’altra parte, il segnale di un distacco tra la rappresentanza elettorale e i gruppi sociali che, pur con le loro fragilità, chiedono alle forze politiche di prendere impegni concreti su temi e problemi. Si tratta di una frattura oggi approfondita dalla vigente legge elettorale e dalla selezione di candidati che sono stati scelti nel corso dell’estate dalle segreterie di partito, senza l’adozione di alcun metodo democratico o partecipativo.

Questa separazione tra governati e governanti manifesta una condizione di strutturale diseguaglianza politica perché, al di là delle regole formali per le elezioni, si fa fatica a trovare un raccordo sostanziale tra le forme assunte dalla rappresentanza e lo svolgersi della vita dei cittadini. In questo insufficiente raccordo si annida il rischio di sovra-rappresentare un gruppo su di un altro, di conferire poteri incisivi ad alcune persone senza un’adeguata selezione; insomma, di non porre le condizioni per un’«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, c. 2, Cost.). L’eguaglianza formale del voto rischia di non corrispondere all’eguaglianza sostanziale tra le persone, cioè di non tener conto della loro realtà e delle condizioni plurali di vita.

I limiti strutturali della rappresentanza democratica

Tutto ciò non è una novità: rientra nella tensione costitutiva che attraversa la “finzione” della rappresentanza politica fin dalla modernità; eppure oggi sembra che non vi sia più un’adeguata compensazione ai limiti strutturali dei meccanismi rappresentativi. Se è vero questo, le elezioni politiche e il voto che andremo a esprimere a fine settembre non appaiono risolutivi. Eppure rappresentano un’occasione per provare a porre il tema e non andare avanti per inerzia (o indifferenza) democratica.

Le domanda politiche da formulare ai neo eletti parlamentari potrebbero suonare così: come intendete ripensare il modello di rappresentanza democratica? Come proverete a rinsaldare i legami sociali? Il quesito da porre è essenziale e va posto in senso costruttivo. È essenziale perché dalla risposta non dipende solo il superamento del gap partecipativo, ma anche come verranno affrontate tutte la serie di diseguaglianze che attanagliano il nostro Paese (economiche, di genere, formative e scolastiche, ambientali, territoriali).

La domanda necessita un approccio costruttivo sapendo che la risposta non può venire dall’alto ma va ricercata insieme: sono gli stessi rappresentanti politici locali e nazionali, i quali spesso provengono dalle fila della società civile, a chiedere un maggior raccordo e a manifestare un sentimento di solitudine nel corso dello svolgimento di incarichi di responsabilità.

Superare l’ineguaglianza politica

Non è questa la sede per dare risposte puntuali al quesito o adottare una linea univoca sul tema. Certamente però, anche alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, si possono tracciare alcune linee di indirizzo e, conseguentemente, escludere alcuni percorsi.

Per superare l’ineguaglianza politica, bisogna innanzitutto superare una rigida contrapposizione tra pubblico e privato, tra Stato e società civile. In tal senso, negli scorsi decenni si è fatto spesso riferimento al principio di sussidiarietà: esso però è stato utilizzato talvolta in senso contrappostivo o rivendicativo, come strumento per recuperare il terreno sociale perso contro lo Stato e ha finito per irrigidire la separazione tra pubblico e privato.

La risorsa della fraternità

Si può forse oggi trovare nella fraternità una risorsa per pensare diversamente il rapporto tra dimensione politico-elettorale, istituzioni, società civile e vita dei cittadini.

È illuminante un messaggio del 2017 che papa Francesco ha inviato alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. In quella occasione, egli affermava che, «mentre la solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare eguali, la fraternità è quello che consente agli eguali di essere persone diverse. La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro essenza, dignità, libertà, e nei loro diritti fondamentali, di partecipare diversamente al bene comune secondo la loro capacità, il loro piano di vita, la loro vocazione, il loro lavoro o il loro carisma di servizio».

In questa affermazione è tratteggiato un progetto: trovare forme perché i cittadini eguali possano trovare modalità differenziate per concorre al bene comune secondo le plurali forme della loro vocazione sociale.

Senza voler qui avanzare progetti istituzionali specifici, pare però si possa dire che alcune prospettive corrispondono a questo progetto politico – di una politicità più ampia di quella solamente rappresentativa – di fraternità.

Potrebbero corrispondere a questo progetto:

– il disegno di valorizzare le forme di auto-governo territoriale (a partire dalle circoscrizioni comunali) ed economico (si pensi a luoghi in cui dare spazio allo scambio tra lavoratori e imprese come le Camere di commercio o, a livello nazionale, al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro);

– la formalizzazione di modalità e procedure per la gestione dei beni comuni (come i cosiddetti patti di collaborazione);

– la possibilità di scambi e confronti più intensi tra la dimensione locale e quella internazionale, al fine di cogliere la portata globale delle scelte particolari.

Dovrebbero invece escludersi forme ulteriori di verticalizzazione di potere, a cui alludono alcune proposte di riforma costituzionale emerse in queste settimane o finalizzate alla valorizzazione delle sole leadership a discapito di percorsi di dialogo e di democratizzazione delle forze politiche e sociali.

In conclusione, è urgente affrontare una diseguaglianza di metodo democratico, oltre a quelle di merito. Una diseguaglianza di cui i neo eletti rappresentanti dovranno farsi carico di concerto con le realtà sociali. Una direzione possibile è quella di pensare un sistema politico nel segno della fraternità, capace di riconciliare pubblico e privato e di riarticolare una realtà di legami che esiste in concreto e che ha bisogno di nuove forme di espressione ed emersione.