Nel contesto di un caro-prezzi che resta a livelli insostenibili per i redditi bassi e che avvolge in una spirale di preoccupazione anche il cosiddetto “ceto medio”, tra pochi mesi centinaia di migliaia di persone perderanno il reddito di cittadinanza. E quanti, nell’anno da poco  iniziato, scivoleranno in povertà saranno probabilmente privi di uno strumento economico di sostegno al reddito. Una situazione potenzialmente esplosiva, che nasce dal mix tra crisi bellico-energetica e scelte politiche del nuovo governo. Il rischio è che il doppio colpo della  pandemia e della guerra mossa dalla Russia contro l’Ucraina allarghi ulteriormente la forbice della disuguaglianza del nostro Paese, premiando le rendite e punendo duramente non solo chi già vive in povertà, ma anche si trova in posizioni lavorative meno tutelate e sinora ha  “sbarcato il lunario”.

La parola-chiave è “occupabili”. Sono loro che, a partire dal prossimo primo agosto, non potranno più ricevere il reddito di cittadinanza. I motivi per cui il Governo ha assunto questa decisione sono noti: dal varo del reddito, hanno creato disagio nell’opinione pubblica le truffe e  le disfunzioni del contributo anti-povertà, che lo Stato finanzia con una cifra mobile tra i 7 e i 9 miliardi annui. È noto, inoltre, che in alcuni territori economicamente più depressi, in particolare al Sud, il reddito abbia rappresentato – non per tutti, la generalizzazione è sempre un abbaglio – un disincentivo al lavoro o, peggio, un’opportunità per affiancare a un reddito statale un’entrata in nero. Situazioni che gli enti preposti avrebbero dovuto prevenire e contrastare più efficacemente, al fine di salvaguardare il significato stesso di un contributo economico  a persone e nuclei poveri. In questi “buchi” del reddito di cittadinanza si è, come dire, infilato il nuovo Governo, che ha un approccio ostile a questo strumento e che ha assunto tre decisioni: innanzitutto, a breve termine, lo stop alle erogazioni a chi rifiuterà un’offerta  di lavoro (in precedenza il taglio del reddito arrivava dopo il secondo “no”); in seconda battuta, a partire dal primo agosto, l’esclusione dal beneficio degli “occupabili”, appunto; infine, terzo step, una riforma complessiva degli strumenti per la lotta alla povertà,  distinguendo le erogazioni a chi non può lavorare o ha a carico figli, disabili e anziani dalle politiche attive per chi è potenzialmente “arruolabile” per un impiego.

Il punto è che i tagli sono certi, mentre la futura riforma è ancora avvolta dalle nubi. E, soprattutto, non è chiaro se il nuovo Governo voglia continuare a investire nel contrasto alla povertà mantenendo intatte le risorse economiche destinate negli ultimi tre anni a questo scopo,  oppure se voglia ridurre le dotazioni della lotta alla povertà per finanziare altri obiettivi politici.

Di certo ci sono gli effetti prevedibili quando, in estate, scatterà la tagliola. Intanto la generica categoria “occupabili” sembra buona più per i titoli di giornale che per articolare misure efficaci. Al netto delle truffe e delle furbate che indignano anche chi è convintamente favorevole  a un aiuto ai più poveri, va detto che dietro la difficoltà di una persona a trovare un impiego ci sono numerosi fattori che vanno oltre lo stato di salute fisica o l’età. I fattori di natura materiale e immateriale sono molteplici e ben noti agli operatori sociali. Inoltre, fa molto discutere  – ma qui il dibattito è laicamente aperto – l’idea per cui una persona, specie giovane, debba mettere necessariamente da parte aspirazioni e sogni in presenza di un’offerta di lavoro non corrispondente alla propria formazione e competenza. È chiaro che siamo in un periodo che richiede realismo, ma attenzione a non dimenticare quanto la Costituzione stessa dice sul “diritto” dei cittadini, in special modo delle nuove generazioni, a realizzarsi secondo le proprie capacità e aspirazioni: capacità e aspirazioni, non pretese o illusioni. Alla già ampia forbice delle disuguaglianze potrebbe quindi aggiungersi un altro capitolo: quello di giovani che, seppure ben istruiti, non abbiano diritto a salire un gradino sulla scala sociale solo perché non godono dei contesti familiari e relazionali adatti, o perché un territorio li priva di opportunità. E  che, nella fase di passaggio tra la formazione e il lavoro cui tendono, non meritino di essere aiutati dallo Stato perché “viziati”. È evidente che le cose non stanno esattamente in questi termini.

Va poi fatta un’altra valutazione sulla lotta alla povertà. Come detto, sul reddito di cittadinanza – misura non perfetta, ultra-centralizzata e che tra l’altro ha cancellato i buoni princìpi del precedente reddito d’inclusione, gestito con meno risorse ma con un maggiore coinvolgimento  dei Comuni e del Terzo settore – vengono investiti tra i 7 e i 9 miliardi. Le truffe che hanno sottratto diversi milioni hanno creato pregiudizio, certo. Ma quanto pregiudizio ci potrebbe essere verso i 44 miliardi di euro che ogni anno lo Stato spende per incentivare  le imprese, se venissero sistematicamente rese note tutte le truffe e le appropriazioni indebite?

Insomma, se ci fosse verso tutte le voci di spesa dello Stato la stessa attenzione prestata al reddito di cittadinanza, forse saremmo un Paese migliore. In ogni caso, di fronte a un Governo democraticamente eletto, bisogna porsi in un atteggiamento maturo di attesa non pregiudiziale. La maggioranza, giustificando il taglio del reddito di cittadinanza, ha promesso di adoperarsi per trovare un posto di lavoro agli 800.000 “occupabili” che oggi ricevono un sussidio.

Un impegno abbastanza roboante, da tenere a mente quando poi bisognerà tirare le somme. Inoltre, l’esecutivo si è detto capace di attivare percorsi di formazione professionale adeguati alle domande del mercato, riformando e rivitalizzando i Centri per l’impiego e  coinvolgendo le agenzie private. Propositi espressi tante volte da numerosi governi, ma il rischio è che poi, alla fine, resti in vigore solo il taglio del sostegno a chi è in difficoltà.

Caritas Italiana, nel valutare i propositi di riforma del reddito di cittadinanza, avverte: «Il confine da non oltrepassare è il diritto dei poveri a un’esistenza decente». In questo senso, sarebbe un errore se l’Italia tornasse alla situazione precedente al reddito di cittadinanza, quando  era l’unico grande Paese europeo a non avere un vero strumento anti-povertà dotato di risorse sufficienti. Inoltre, Caritas chiede al Governo di «non ripetere gli errori dell’intervento transitorio», in particolare quel concetto di “occupabilità” che fa riferimento a categorie  ultrageneriche e poco affidabili. Certo l’auspicio, spiega Caritas, è che la riforma diventi una «opportunità» anche per superare i limiti e gli errori del reddito di cittadinanza. Il più grave dei quali – è bene ricordarlo – era quello di non raggiungere quasi la metà dei poveri assoluti,  che non hanno possibilità di accedere all’informazione necessaria per attivare il sussidio.

L’articolo è stato originariamente pubblicato nella rivista Dialoghi.