La festa della Repubblica di quest’anno è stata segnata da tre elementi di contesto: la pandemia, la guerra e lo spettro di una recessione economica. Questi elementi determinano un’incertezza sul futuro che, oggi, sembra compromettere alcuni dei principi costituzionali che abbiamo celebrato.

Il contesto internazionale, infatti, mette in tensione i valori e le finalità costituzionali con la vita reale – economica e sociale – delle persone: a partire dal principio di uguaglianza sostanziale che, in questo sito, non si è smesso di sottolineare come sia sempre più compromesso; sembrano poi mancare i mezzi per dare sostanza al diritto al lavoro e a un lavoro dignitoso, ma anche alla tutela dell’ambiente e delle generazioni future, che recentemente hanno fatto il loro ingresso nella Carta costituzionale (con legge costituzionale n. 1 del 2022 che ha modificato gli articoli 9 e 41).

Si tratta di tensioni che erano presenti anche prima che intervenisse questo fascio di crisi recenti e che avevano spinto i promotori della campagna Chiudiamo la forbice, nel 2018, a chiedere un ripensamento del paradigma economico per “chiudere la forbice” delle diseguaglianze.

Oltre a denunciare la tensione – resa socialmente ed economicamente insostenibile dai tre elementi di contesto sopra menzionati – tra i valori costituzionali e la realtà economico-sociale del Paese, oggi è necessario fare qualcosa di più.

Non basta, infatti, invocare l’intervento dello Stato per ripianare le perdite di settori duramente colpiti dalla pandemia; è legittimo il ricorso all’indebitamento, ma sarebbe parimenti costituzionalmente giusto rimuovere alcuni privilegi e monopoli in settori economicamente redditizi e restringere il margine di profitto per le attività che producono beni di largo consumo e che hanno visto un aumento significativo dei prezzi. Non basta l’utilizzo del debito, patrimonio comune, per rispondere a una crisi che ormai non è più episodica: serve richiedere responsabilità e solidarietà a tutti gli operatori economici e, ancor di più, serve un mutamento della forma di questi ultimi. In questo senso, serve mutare il paradigma correttivo delle diseguaglianze, incentrato sul rapporto Stato-mercato, tra pubblico-privato.

Un modello alternativo esiste già: la Costituzione italiana aveva previsto un orizzonte autentico per pensare diversamente i rapporti economici; un modello che aveva intuito come la democrazia nei luoghi di lavoro potesse essere la soluzione alle distorsioni di un’economia del solo profitto.

Così gli articoli 45 e 46 della Costituzione avevano tracciato, da un lato, il modello cooperativo come quello in grado di essere alternativo alle forme societarie e, d’altro, il diritto alla «collaborazione» dei lavoratori alla gestione delle imprese lucrative come paradigma per rendere le attività economiche maggiormente democratiche e così comprensive delle istanze dei lavoratori.

In entrambi i modelli, il lavoro non era ridotto a merce da scambiare o a mero fattore produttivo, ma un apporto, personale e partecipato, reso in un’organizzazione complessa di rapporti umani, economici e sociali. Potremmo dire che il lavoro non era più subito perché subordinato, ma attivo perché partecipato. Inoltre questa estensione della democrazia nei luoghi di lavoro aveva l’obiettivo di non separare le sfere dell’agire del cittadino contrapponendo o separando economia, politica, società: si trattava allora ed ora di tenere insieme i profili di un’eguaglianza che non può che essere unitaria per poter realmente favorire il «pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).

Gli strumenti possono essere molti – oltre alla cooperazione e alla partecipazione dei lavoratori – ma essi devono necessariamente ripartire dalla democrazia economica: decisione condivise tra imprenditori, management, lavoratori e stakeholder sono le uniche che possono tenere insieme istanze sociali, ambientali e produttive. La “democratizzazione” dei rapporti economici, pur nella suddivisione delle funzioni, sembra l’unica strada per ridurre le diseguaglianze perché prevede un reale coinvolgimento di tutte le persone che lavorano e un’assunzione delle loro istanze nel processo decisionale.

Questo modello di rapporti economici contiene in sé una prospettiva di giustizia economica in grado di andare oltre i confini degli Stati: le aziende, infatti, che hanno adottato tali modelli partecipativi (in particolare quelle tedesche, mediante la cosiddetta Mitbestimmung) li hanno esportati in tutto il mondo, nelle loro catene di valore, contribuendo a innalzare le tutele e i diritti dei lavoratori e il rispetto per i territori e le società locali.

Il progetto di una democrazia economica – o per meglio dire di “democrazia sostanziale”, come affermava Giuseppe Dossetti – della Costituzione italiana sembra oggi ancora più attuale rispetto a fasi storiche di maggiore crescita economica, eppure non è efficace perché non è stato attuato.

Proprio in ragione dei tre elementi di contesto – pandemia, conflitti, crisi economica – bisognerebbe tornare a meditare e festeggiare le intuizioni costituzionali e provare a chiedere – prima di tutto a noi stessi, ai sindacati, alle forze politiche – se abbiamo la volontà e la pazienza di dare pienamente attuazione a quei sentieri costituzionali di eguaglianza che la Costituzione ha tracciato.