Mai come in questi anni si parla di diritti dei bambini, mai come in questo periodo l’educazione è tornata al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. Ma questo maggiore interesse si traduce in maggiori diritti per i giovani? Si trasforma in politiche realmente vicine alle generazioni?
La risposta che nasce dall’osservazione degli ultimi mesi, da febbraio scorso quando la pandemia è entrata nelle nostre vite sino ad oggi, è ambivalente.
Da un lato la scuola ha occupato le prime pagine dei giornali come mai prima, ma il dibattito pubblico si è spesso fermato alla dissertazione erudita sulle modalità tecniche e orarie di gestione dei flussi degli studenti, oppure sulla dotazione software ed hardware delle scuole per fare didattica a distanza con il solo obiettivo di rispondere alla domanda scuole chiuse o aperte.
Ma in questi tempi difficili non è più possibile ragionare per dicotomie, scuole aperte o scuole chiuse, prima i giovani o gli anziani, prima la salute o prima il bisogno di lavorare. E ben lo sanno i docenti, i ragazzi e le loro famiglie che debbono continuamente adattare i propri comportamenti all’evoluzione della pandemia e dove ogni piccola nuova regola si traduce in uno tsunami organizzativo accompagnato da un’immensità di quesiti, dubbi perplessità sempre nuovi e mutevoli.
Dal nostro osservatorio Earth Day Italia a contatto con tante scuole e ragazzi, dai tavoli istituzionali nazionali ed internazionali in cui si parla di educazione alla sostenibilità, dalla mia esperienza di mamma in smart working che cerca dal salotto di casa di risolvere tutte le immense contraddizioni di questi tempi, purtroppo si rilevano mille segnali che dicono che la pandemia in corso sta avendo un impatto enorme sui diritti dei bambini di tutto il mondo.
Innanzitutto per l’acuirsi della crisi economica che ha reso il futuro insopportabilmente incerto per quei bambini che vivono in famiglie economicamente fragili. Le previsioni sono allarmanti; il numero totale di bambini che vive sotto la soglia di povertà potrebbe superare i 700 milioni nel mondo entro la fine del 2020. Molte famiglie hanno subìto infatti gli effetti economici della pandemia e non possono permettersi quindi le cose più basilari come cibo, educazione e cure.
Anche in Italia la povertà aumenta e la mancanza di adeguate opportunità educative minaccia dal profondo il nostro Paese. Già prima del Covid i bambini in povertà assoluta erano oltre un milione. Alcuni insegnanti romani ad esempio mi raccontavano di aver “perso” alcuni studenti. Quelli che vivono in contesti molto fragili, si perdono dietro alle quarantene, alla dad e non sono avvicinati e supportati con la stessa caparbietà istituzionale di prima. Questo mette in crisi il diritto all’istruzione per molti ragazzi, ma anche il diritto ad essere protetto, a sentirsi uguali. Diritto di esistere.
Il COVID-19 ha messo drammaticamente in luce la realtà e acuito le disuguaglianze tra bambini e troppo spesso la rete di servizi e di welfare non riesce a colmare quel gap di opportunità legato alla condizione di nascita. Dal tablet alla mensa, dai libri alla salute, troppi sono i divari nell’accesso ai servizi, alla scuola, alle opportunità educative. Ma le famiglie diventate più fragili debbono anche combattere con la stigmatizzazione della povertà nelle nostre culture occidentali, che rende difficile alle persone cercare supporto e sostegno, che fa provare vergogna.
Molti osservatori sui giovani rilevano, poi che in un mondo fortemente competitivo, con risorse sempre più limitate, sempre più giovani sentano il peso di non sentirsi all’altezza e decidano per il ritiro sociale. Gli hikikimori[1]o i neet[2] sono persone che vivono nei nostri condomini, nelle nostre scuole. Sono fratelli, figli, amici, vicini ma sono trasparenti e non dovrebbero esserlo.
Nello stesso tempo ho raccolto anche molte voci che si levano dalle scuole e dai territori, che raccontano di come si rafforzino nelle periferie delle megalopoli, così come che nei piccoli borghi che si rianimano, iniziative di solidarietà di quartiere, di vicinanza territoriale che cercano di ricucire le maglie di quel morbido cuscinetto sociale che attutisce le cadute sempre più frequenti di chi vive questo momento storico straordinario. Iniziative pionieristiche e a volte visionarie ma anche molto, molto concrete.
Nel mio quartiere, in una periferia nel quadrante Nord Est di Roma, ad esempio alcuni insegnanti di differenti istituti si sono autoformati per riuscire a portare i ragazzi a fare lezione all’aperto, coinvolgendo altre scuole che avevano già sperimentato la didattica all’aperto, hanno mappato il territorio per vedere i luoghi da esplorare ed in cui formarsi al di là delle mura scolastiche insieme con tante associazioni del territorio e cittadini volenterosi, hanno cercato vicinanza istituzionale, hanno coinvolto i genitori. Queste sono spinte dal basso che cercano appunto di colmare lacune di diritti che sono nelle mancate risposte ai bisogni di cura ed educazione di cui i ragazzi hanno bisogno per diventare uomini adulti responsabili.
Ma hanno un fine anche molto più grande che non si limita assolutamente solo nella risposta alle inefficienze dello stato, sono azioni che producono cambiamento vero, che costruiscono nuove comunità educanti che nel futuro tuteleranno meglio i diritti dei giovani e dei bambini.
Se poi nelle aule o nelle famiglie, si volesse affrontare il tema dei diritti dell’infanzia il prossimo 20 Novembre val la pena festeggiare la Giornata Mondiale dei diritti dei bambini. La data scelta coincide con il giorno cui l’Assemblea generale ONU adottò la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, nel 1959, e la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child), nel 1989.
Se utile è possibile scaricare la guida illustrata realizzata da Save the Children, per spiegare in maniera semplice i diritti dei bambini ai bambini.
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[1] Hikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato in gergo per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. È un fenomeno che riguarda soprattutto i giovani dai 14 ai 30 anni, principalmente maschi (tra il 70% e il 90%). In Giappone si stimano oltre 1 milione di casi, in Italia non esistono stime.
[2] NEET (Not in Education, Employment or Training) sono i 15 – 29 anni che non sono né occupati né inseriti in un percorso di istruzione o di formazione.