L’Unione Europea tenta un’impresa epocale: ripristinare la Natura nel 20% del proprio territorio entro il 2030.
C’è una forbice che ha iniziato ad aprirsi quando l’umanità ha cominciato a modificare il territorio: quella tra l’essere umano e l’ambiente naturale. Da tempi preistorici abbattiamo foreste, scaviamo miniere e deviamo fiumi per ricavare materiali e spazi per l’agricoltura, l’edilizia, il commercio, la guerra. Negli ultimi due secoli la forbice si è addirittura spalancata, visto che anche quei residui di natura più vicini e integrati agli insediamenti umani (come le campagne, le rive di laghi e fiumi, i boschi di pianura, le coste) sono stati sacrificati all’industria, alla viabilità, alla logistica, al turismo, e a un’agricoltura che deve nutrire miliardi di persone e animali d’allevamento. Più o meno in ogni continente, gli ecosistemi pienamente naturali si sono progressivamente ridotti fino alla stima attuale di un residuo 20% delle terre emerse “non antropizzate”, ovvero prive di segni di presenza umana: un conto che include luoghi estremi come poli, foreste tropicali, deserti, vette e ghiacciai. Le conseguenze di questo “progresso” della Storia non sono soltanto a carico dalla Natura. Secondo le stime, più della metà del PIL mondiale dipende dalle risorse naturali e dai cosiddetti “servizi ecosistemici” che l’ambiente fornisce gratuitamente: ad esempio l’opera degli animali impollinatori (api, farfalle, alcune specie di uccelli) da cui dipende il 75% dei raccolti del pianeta. Ma questi servizi collassano con la distruzione degli habitat naturali. Secondo le valutazioni dell’UE, ad esempio, la perdita di produttività dei suoli agricoli europei a causa di eccessivo sfruttamento, siccità e cambiamenti climatici, è quantificabile in 50 miliardi di euro annui; la metà delle zone umide del continente sono scomparse negli ultimi 50 anni; e percentuali tra il 60 e 70% delle popolazioni di pesci e anfibi europei sono in declino. Qualcosa però si muove nella giusta direzione.
Il giorno 12 del mese più caldo di sempre (questo luglio), i parlamentari europei – o almeno una loro striminzita maggioranza di 336 favorevoli, 300 contrari e 13 astenuti – hanno approvato la proposta della Nature Restoration Law: un provvedimento epocale che obbligherà gli stati membri non solo a tutelare le aree naturali rimaste, ma a ripristinarne una buona parte di quelle distrutte in passato. I media hanno giustamente definito pionieristica questa decisione che sta superando a fatica le secche di un iter comunitario complesso e gli scogli di interessi lobbistici contrari: ad esempio quelli dei colossi dell’agroindustria e dello sfruttamento del legname delle foreste. A dispetto dei titoloni però la “Nature Restoration” non è ancora una “law”. Per entrare in vigore, quella che ancora di fatto è una proposta dovrà superare un ultimo passaggio: la negoziazione tra Parlamento e Consiglio dell’UE, che si svolgerà nei prossimi mesi e da cui dovrà scaturire il testo finale, con le misure vincolanti per i paesi membri.
Il passaggio parlamentare è stato comunque un punto di svolta per la difesa dell’ambiente e la lotta concreta agli effetti del cambiamento climatico. Una presa di coscienza del fatto che progresso e benessere (soltanto economici) del secolo passato sono stati ottenuti ai danni di un ambiente modificato, saccheggiato, contaminato, e spesso del tutto cancellato senza troppi rimpianti. Non è un passaggio da poco per almeno tre generazioni di cittadini ai quali è stato raccontato che le paludi sono da “bonificare”, i prati naturali sono “incolti”, e gli spazi verdi rimasti tra un capannone industriale e un centro commerciale sono “il nulla”. Nel secondo decennio del terzo millennio le nuove e vecchie generazioni vanno “rieducate” al concetto stesso di natura da salvare. Nella lista degli ambienti da tutelare e ripristinare ci sono infatti “distese fangose”, “steppe salate”, “torbiere”, “boschi paludosi”, “acque stagnanti”, “arbusteti pre desertici”, “ghiaioni”, “comunità di alghe perenni su rocce litorali”: non proprio luoghi adatti a un selfie o a una cartolina turistica. Il cambio di mentalità necessario è capire che “utile” e “bello” (secondo i nostri canoni estetici) non sempre coincidono quando si parla di servizi ecosistemici. Infatti, per la produzione di ossigeno, nutrienti del terreno e del mare, per l’equilibrio idrogeologico e per il prosperare della biodiversità, un sottobosco di legno marcio vale quanto un prato fiorito, una pietraia assolata quanto un laghetto di montagna, e una distesa di rovi quanto una foresta di abeti. Tutti necessari e tutti brulicanti di vita, in forme e misure diverse, non sempre attraenti dal punto di vista scenografico… o fotografico. Se l’Europa vuole aria e acqua pulite, un territorio sicuro, dei prodotti alimentari di qualità, sani, abbondanti e a km zero per tutti i suoi cittadini, deve riportare sulla scena i suoi insetti impollinatori, le sue praterie da fieno, i suoi fondali marini popolati di alghe, mitili e molluschi, e i suoi corsi d’acqua, liberi di straripare.
Come si ripristina la Natura? La proposta vuole porre un freno a “la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi” che “proseguono a un ritmo allarmante, danneggiando le persone, l’economia e il clima”, come si legge nelle premesse del provvedimento. Per ottenere questo agli stati membri è richiesto di ripristinare lo stato naturale di almeno il 20% delle zone marine e terrestri dell’Unione entro la fine del 2030. Se questo primo traguardo sembra già arduo da tagliare, si consideri che nei successivi 20 anni l’UE dovrà riuscire a recuperare “tutti” gli ecosistemi che “necessitano di ripristino”. Questi ambienti sono elencati dettagliatamente negli allegati, divisi per tipo di habitat. Il provvedimento pretende che si intervenga progressivamente negli anni, senza tralasciare nessun habitat: dalle spiagge del Baltico ai fondali del Mediterraneo, dalle vette alpine alle steppe dell’est, dai pascoli pirenaici alle foreste balcaniche.
Anche gli “ecosistemi urbani” rientrano nell’ambito di intervento della legge, che vieta esplicitamente ulteriori “perdite nette di spazi verdi e coperture arboree” nelle città, rispetto alla situazione fotografata nel 2021. Il provvedimento chiede inoltre un aumento di questi spazi verdi di almeno il 3% della superficie delle città entro il 2040, per poi aumentare almeno fino al 5% entro il 2050. Si impone infine che, alla stessa data, la copertura di alberi raggiunga almeno il 10% delle superfici urbane. Un’altra misura concreta che si legge sulla proposta della Nature Restoration Law è l’obbligo di inventariare argini, dighe e sbarramenti artificiali, accumulati in passato nei fiumi, torrenti e laghi europei. Lo scopo finale è “liberare” lo scorrimento di almeno 25.000 km di fiumi entro il 2030. Un progetto simile è già in corso di realizzazione lungo del fiume Drava in Croazia, dove si stanno rimuovendo diverse dighe per riportare il corso delle acque allo stato naturale. Il ripristino riguarderà anche gli ambienti agricoli con “elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità”: vuol dire far tornare nel paesaggio rurale: siepi divisorie, filari di alberi, fossati con vegetazione e acque libere, stagni, canneti, rovi, muretti, pareti sabbiose e torbiere: habitat per insetti, uccelli e animali vari che sono stati cancellati dall’abuso di chimica, dalla meccanizzazione e industrializzazione dell’agricoltura, dagli anni ’60 in poi. Per un approfondimento di questo aspetto, e dell’importanza della Nature Restoration Law, si consiglia la visione dell’intervista a Danilo Selvaggi, Direttore Generale della LIPU, autore di una biografia di Rachel Carson: la biologa statunitense che per prima denunciò le conseguenze nefaste della “rivoluzione verde” degli anni ’50-60.
Nel suo appassionante saggio “Storia della Natura in Italia” Fulco Pratesi riassume secoli di espansione e contrazione degli spazi umani, contesi alla Natura. Dalla lettura si evince che le epoche che la nostra cultura umanistica ha sempre definite come un progresso – la civiltà antico romana, il basso Medioevo e il Rinascimento, l’Italia “giardino d’Europa” del ‘700, la Rivoluzione Industriale del XIX secolo e il boom economico del secondo Novecento – sono stati periodi in cui boschi, pianure e coste sono stati sfruttati al massimo da una popolazione in crescita numerica ed economica. La Natura invece ha letteralmente recuperato terreno, con un aumento sensibile di animali selvatici e copertura forestale, in quei periodi storici che di solito definiamo di crisi: il declino dell’Impero Romano e l’alto Medioevo, i decenni flagellati dalle epidemie di peste, la recessione e l’abbandono delle campagne di fine XX secolo. Perciò la Nature Restoration Law, se entrasse in vigore, rappresenterebbe un evento epocale: perché concilierebbe il progresso con la Natura, il benessere con la sostenibilità, gli esseri umani con quell’ambiente di cui, nonostante tutto, fanno ancora parte.