“Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società” (EG 186). Papa Francesco ci pone davanti l’ineludibile legame tra fede, evangelizzazione e impegno per gli altri, a partire dai più poveri e dagli esclusi. Da sempre la Chiesa e i cristiani si sono preoccupati di questo impegno, coniugando la dimensione della risposta immediata ai bisogni con la “carità sociale e politica” (DSC 208), perché la carità è sia “l’opera di misericordia con cui si risponde qui ed ora ad un bisogno reale” sia “l’impegno finalizzato ad organizzare e strutturare la società in modo che il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria” (ibid.).
Essere “Chiesa in uscita”, che abita le periferie, che si fa ospedale da campo per chi soffre, significa mettersi in ascolto del grido del povero, per imparare a piangere con chi piange perché “quando saprai piangere, allora sarai capace di fare qualcosa per gli altri con il cuore” (CV 76). La sfida a cui ci chiama Francesco è quella di non fare l’abitudine ai tanti drammi della nostra società, alle tante iniquità che caratterizzano il nostro tempo e i nostri territori. È una sfida alla nostra maternità ecclesiale perché una Chiesa che non sa non piangere non è madre.
La crisi economica del 2008 ha acuito le disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra paesi, tra generazioni, tra categorie sociali ed esse frenano le possibilità di una ripresa economica equilibrata e a lungo termine. Le diseguaglianze si manifestano a livello di distribuzione dei redditi e dei capitali, delle opportunità di vita, di utilizzo delle risorse naturali, delle possibilità di sviluppo intellettuale, sociale, professionale. Assistiamo drammaticamente all’accrescersi del divario tra ricchi e poveri: i primi accrescono sempre più la loro ricchezza, mentre i secondi vedono diminuire il poco che hanno (si veda a tal proposito l’ultimo rapporto Oxfam e i numerosi commenti in questo portale).
Papa Francesco in Laudato Si coglie perfettamente il legame tra le varie forme di disuguaglianze – economiche, politiche, giuridiche, sociali, ambientali – richiamando i credenti e tutti gli uomini di buona volontà a un impegno concreto a favore di chi fa più fatica ed è “scartato”; impegno necessario per la realizzazione del bene comune. Infatti, il problema delle diseguaglianze si intreccia inevitabilmente con la effettiva realizzazione del bene comune. Non si può davvero realizzare il bene comune se esso non è il bene di tutti, se permane uno scarto tra le condizioni di vita delle persone e dei popoli.
Proprio per questo, siamo chiamati a rispondere mettendo in campo le energie migliori per aiutare le nostre comunità a non restare sorde al grido dei più deboli, di chi fa più fatica, di chi cerca un futuro migliore lontano dalla terra di origine, impegnandoci nella sfida per l’integrazione e il riscatto di chi è “scartato” dalla nostra società. Ci lasciamo guidare da uno stile e da due priorità.
Lo stile è quello della fraternità che, sebbene sia considerata dai più un’irrealizzabile utopia, è l’unico modo per vivere autenticamente da cristiani. Francesco ci invita a costruire una mistica della fraternità che sa scoprire “Dio in ogni essere umano” (EG 92), partendo da chi è emarginato, soffre e fa più fatica.
A partire da questo stile, le due priorità per il nostro impegno sociale e politico (che letteralmente sono la precondizione per la soluzione di ogni altro problema) sono “l’inclusione sociale dei poveri” e “la pace e il dialogo sociale” (EG 185). Queste due priorità sono strettamente connesse: solo migliorando le condizioni di vita dei più poveri si potrà costruire la pace e la buona convivenza; solo garantendo la pace si potrà ridurre la povertà.
E solo grazie a entrambe, ripensando il nostro modo di intendere l’economia, si potrà costruire uno sviluppo a lungo termine, sostenibile, solidale, ecologico, integrale. Si tratta di un modello di sviluppo in cui la creazione di ricchezza non deve andare a scapito delle risorse del creato, perché altrimenti a pagare il prezzo più alto saranno i più poveri (e le generazioni future). Inoltre – in un mondo dove “tutto è connesso” – povertà, urbanizzazione, questione migratoria e sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali sono problemi intimamente connessi e da affrontare congiuntamente, come sottolinea il documento preparatorio del Sinodo sull’Amazzonia.
Abbiamo il compito di impegnarci affinché l’economia possa tornare ad essere “l’arte di raggiungere un’adeguata amministrazione della casa comune” (EG 206). In un contesto globale e interconnesso, non possiamo pensare che le scelte economiche (e le loro conseguenze) siano qualcosa di lontano e indipendente da noi; ciascuno di noi ha la possibilità con le sue scelte di consumo e risparmio di “votare con il portafoglio” ed è chiamato a prendere consapevolezza che le proprie decisioni economiche sono la principale forma di pressione sugli attori economici che ha a disposizione.
Credo che una grande speranza sia la forte sensibilità verso le ingiustizie e la solidarietà che mostrano le giovani generazioni. Guardando con attenzione al nostro tempo e andando oltre gli stereotipi, possiamo riconoscere il desiderio di impegno, di protagonismo e di costruzione del bene che c’è in tantissimi giovani. Lo si ricorda con chiarezza anche nel documento finale della XV Assemblea del Sinodo dei Vescovi: “Anche se in forma differente rispetto alle generazioni passate, l’impegno sociale è un tratto specifico dei giovani d’oggi. A fianco di alcuni indifferenti, ve ne sono molti altri disponibili a impegnarsi in iniziative di volontariato, cittadinanza attiva e solidarietà sociale, da accompagnare e incoraggiare per far emergere i talenti, le competenze e la creatività dei giovani e incentivare l’assunzione di responsabilità da parte loro” (DF 46). Siamo chiamati a valorizzare questo impegno, sia nel mondo ecclesiale che in quello civile: se saremo capaci di costruire un’alleanza con il mondo adulto e canalizzare l’impegno in progetti concreti e a lungo termine, c’è una speranza in più per invertire la rotta. Solo attingendo al meglio della nostra umanità, potremo costruire un modello di sviluppo che riduca le disuguaglianze, migliorando così il vivere comune.