Il 28 luglio 2010 l’Assemblea dell’ONU approvò la Risoluzione 64/292 riconoscendo “il diritto umano all’acqua potabile pulita e sicura, e ai servizi igienici, essenziali per il pieno godimento della vita e dei diritti umani”. Il documento, passato con 122 voti favorevoli (Italia compresa) e 41 contrari, invita le nazioni e le organizzazioni internazionali a stanziare risorse finanziarie, mettere in campo tecnologie e competenze, fornire assistenza e collaborazione, soprattutto ai paesi in via di sviluppo, per raggiungere l’obiettivo. Un obiettivo poi ribadito nel 2015, quando l’ONU mise nero su bianco i 17 Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030. Il sesto di questi obiettivi ribadisce appunto che entro i prossimi 11 anni occorre “Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie”.

Nel 2010 le Nazioni Unite partirono dal fatto che quasi 900 milioni di persone nel mondo non avessero accesso all’acqua potabile; che più di 2,5 miliardi non potessero disporre di servizi sanitari essenziali; e che un milione e mezzo di bambini sotto i 5 anni morissero ogni anno per malattie causate da queste carenze igienico-sanitarie. Gli ultimi dati disponibili affermano che la parte di umanità che ha accesso all’acqua potabile è salita dal 76 al 91%, e quella che ne è ancora priva è scesa a poco più di 660 milioni. Sempre troppi. Non solo la mancanza totale, ma anche la scarsità d’acqua ha effetti deleteri sulla salute e sulla pace sociale: 1,8 miliardi di persone utilizzano fonti idriche contaminate da escrementi, e L’ONU stima che entro il 2050 un quarto degli esseri umani conviverà con carenze durature o ricorrenti di acqua potabile. Già oggi il 40% della popolazione mondiale soffre per questa penuria, e 1,7 miliardi di persone vivono in territori dove il prelievo di acqua supera la capacità naturale della risorsa di rigenerarsi.

Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile non sono numerati ed elencati in ordine di importanza ma, pur con tutto il rilievo che meritano la fine della povertà (obiettivo 1) della fame (obiettivo 2) la salute (obiettivo 3) l’istruzione e la parità di genere (obiettivi 4 e 5), non sembra sbagliato affermare che, tra tutte le emergenze umanitarie, quella di assicurare un’equa distribuzione dell’acqua a tutti sia la prima da risolvere; e non soltanto per bere, lavarsi e curare l’igiene personale. Il 70% dell’acqua prelevata in natura è utilizzata in agricoltura, per fornire quel cibo che contribuirà a perseguire i primi due obiettivi. Quella idrica è anche la principale fonte energetica rinnovabile utilizzata sul pianeta, con una percentuale stimata al 16% del totale (in Italia è il 41%). L’acqua è dunque strategica anche per conseguire l’Obiettivo 7: “Energia pulita e accessibile. Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni”.

Una risorsa tanto irrinunciabile e quanto ambita. Lo dimostra un fenomeno antico come il mondo, oggi definito con l’espressione “water grabbing”, “accaparramento” o, più prosaicamente, “furto dell’acqua”. Tanto nei paesi poveri quanto in quelli ricchi, in oriente quanto in occidente, il diritto umano all’acqua è negato (o “venduto”) alle popolazioni per i motivi e con le modalità più diverse, da eserciti, enti, governi, società o multinazionali a seconda dei casi.

“Possiamo parlare di water grabbing quando si tratta di privatizzazione dell’acqua, o di grandi opere e infrastrutture. Come le mega dighe che vanno a impattare direttamente su comunità, territori e ambiente. Possiamo parlare di water grabbing anche rispetto all’estrazione mineraria, e quindi all’utilizzo smodato di acqua per estrarre risorse dal sottosuolo, sempre ovviamente impattando gravemente su ambiente e persone”. Sono parole di Marirosa Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory, tratte dalla recente intervista del programma “Ecosistema” di Earth Day Italia (qui la versione integrale: https://bit.ly/2XxEEwG), che ha individuato anche i protagonisti di questi “furti d’acqua”: “Possono essere sia pubblici sia privati. Non ci sono soltanto le multinazionali ‘cattive’. Spesso e volentieri queste fanno accordi con i governi che non hanno un sistema legislativo abbastanza solido a tutela delle risorse idriche”.

In Africa e medio oriente spesso sono le nazioni a disputarsi fiumi, laghi e bacini: ad esempio “l’Etiopia è un paese gravemente colpito dalla costruzione di un gruppo di mega dighe, e oltretutto afflitto anche dall’avanzamento dei cambiamenti climatici. Il fiume Omo, che attraversa l’Etiopia e arriva fino in Kenya è stato interrotto da cinque sbarramenti; e il lago Turkana, che bagna Etiopia e Kenya, è ai minimi storici a causa dell’intervento umano, con la costruzione delle dighe, e  per aumento delle temperature nel Corno d’Africa”. La situazione ha originato un conflitto tra Etiopia e Kenya “perché – spiega Iannelli – le comunità che vivevano nella valle dell’Omo sono state costrette a migrare a sud dell’Etiopia, verso il Kenya, alla ricerca di un’altra fonte d’acqua. Le etnie etiopi e keniote sono entrate in conflitto proprio a causa della necessità di usufruire dello stesso bacino idrico”. In altri casi il water grabbing causa problemi “soltanto” ambientali: è “il caso del Brasile, che abbiamo monitorato recentemente per la costruzione di dighe: stavolta non per l’energia elettrica ma per l’estrazione del ferro, per cui ovviamente hanno impiegato e inquinato una quantità enorme d’acqua”.

In Europa invece la questione assume aspetti più politici ed economici: il diritto dei cittadini a disporre di acqua corrente e pulita (sancito dall’ONU ma recepito dalle legislazioni di pochissimi paesi nel mondo) si scontra con le privatizzazioni delle sorgenti e dei servizi di distribuzione. In Europa, ricorda Iannelli, “ci sono circa 250 comuni o autorità locali che hanno deciso di ri-municipalizzarsi, cioè passare da un sistema di gestione privata ad uno di gestione pubblica dell’acqua […] Non è semplice ri-municipalizzare […]. Attualmente [in Italia, nda] vigono i modelli pubblico-privati: vuol dire che ogni comune ha una compartecipazione pubblica e un’azienda privata che gestisce l’acqua. Ri-municipalizzarsi in toto, cioè il 100% di gestione pubblica, non è un processo semplice e immediato. Deve e dovrà prevedere dei periodi di transizione, anche a tutela dei lavoratori delle aziende private”. Quella della ri-municipalizzazione dei servizi idrici è un’istanza portata avanti in Italia dal Forum dei Movimenti per l’Acqua, all’origine della proposta di legge portata a marzo in Parlamento da parte della maggioranza (M5S). La proposta e prevede una riforma dei servizi idrici nazionali per svincolarli dalle logiche di mercato e affidarne la tariffazione al Ministero dell’Ambiente. Va ricordato che nell’estate del 2011 il 54% dei votanti al referendum sull’acqua pubblica, abrogò la legge del 2008 che aveva dato il via alle privatizzazioni. Da allora in poi però, nessuna legge ha recepito quell’indicazione popolare. Un “Referendum completamente disatteso – ribadisce Iannelli – Ad oggi siamo fermi. […] La situazione dell’acqua in Italia è un po’ a macchia di leopardo, ma abbiamo tendenzialmente una qualità molto buona e molto elevata e, ovviamente, avere acqua pubblica garantirebbe anche un notevole risparmio per tutti i cittadini. Invece si continua a considerare la risorsa idrica come una merce, gestita da multinazionali private e dell’acqua in bottiglia. Il guadagno e il lucro che viene fatto sull’acqua in Italia è veramente elevato su tutti i fronti. Questo ci fa capire molto bene che non si può parlare di diritto: i diritti umani non hanno un prezzo.

Fonti dei dati: UN.org; Utilitalia.it