C’è una frase di sant’Agostino che non mi va giù. È una poesia in cui la madre del santo, dopo la sua morte, si rivolge al figlio: “Se conoscessi il mistero immenso del Cielo dove ora vivo, questi orizzonti senza fine, questa luce che tutto investe e penetra, non piangeresti se mi ami!”. Conclusione: “Se mi ami veramente non piangere”.

Questa frase mi colpisce da sempre perché, al contrario, la vita mi ha insegnato a dare molta importanza al pianto. Per me, le lacrime sono un dono.

Quando mia mamma morì, mi sentii perso. Piansi disperatamente e mi sembrava che quelle lacrime non avessero fine. Più piangevo e più sentivo mia mamma presente e mi sentivo meno disperato.

È un mistero, ma le lacrime allargano la vita e fanno capire meglio il dolore delle persone disperate, specie quelle che non hanno fede. Attraverso le lacrime, scopro sempre di più che il Cielo è unito alla terra e che una madre continua a fare la madre, un fratello il fratello, un figlio il figlio. In questa prospettiva, il pianto è l’unica espressione realmente umana che abbiamo. Perché io piango solo se amo veramente.

L’Arsenale della Pace ha raccolto le lacrime di tantissime persone. Abbiamo visto tutto e apparentemente il contrario di tutto. Storie con un volto, una parola, una tragedia, un pianto. Nessuna fantasia.

Tempo fa è entrato nella mia vita un uomo di una quarantina d’anni, Alessandro, che aveva il volto segnato. In poche parole, mi ha raccontato la sua storia. È il papà di Cecilia, una ragazza di diciassette anni morta in un incidente stradale evitabile. Cecilia era sulla sua Vespa 125, quando è stata urtata lateralmente dall’auto guidata da un anziano di ottantun’anni, sordo. Un tamponamento banale che in una situazione normale non avrebbe avuto conseguenze. Quell’uomo, però, non si era accorto di nulla e aveva agganciato la Vespa, trascinando Cecilia per 40 metri. Per i soccorsi non c’era stato nulla da fare. Cecilia era morta. Ascolto con un dolore infinito il racconto di Alessandro. Mi aspetto una sequela di insulti, di rancore, di rabbia. Sentimenti comprensibili di fronte a una tragedia simile, a maggior ragione quando sono passate appena poche settimane. Invece l’uomo che ho davanti mi sorprende, lasciandomi senza parole. “Ernesto, io ho accolto il dolore a braccia aperte. So che la mia vita continuerà ad essere piena di impegni, ma voglio che ogni cosa sia vissuta anche per mia figlia”. Vedo la foto di Cecilia: è bellissima, un volto solare che esprime la vita e tutti i sogni di una ragazza di diciassette anni. Mentre ascolto Alessandro e lo vedo trattenere le lacrime, lo stupore mi prende. Non so abituarmi all’umanità che incontro, mi chiedo sempre come mai l’Arsenale sia per tanti un rifugio di preghiera, di consolazione, di speranza. Un dono immenso che non smette di commuovermi. Ora ho davanti un uomo che dopo appena due mesi dalla morte tragica della figlia dice di voler andare avanti per fare del bene, consapevole che il dolore non ha l’ultima parola e che la chiave per essere felici, nonostante tutto, è fare felici gli altri.

Alessandro mi ha allargato la visuale. Ne ho viste davvero tante, ma non avevo ancora incontrato un padre che dice di voler accogliere il dolore a braccia aperte. Alessandro mi ha cambiato la vita e mi piacerebbe che l’Arsenale diventasse per sempre la sua casa.

Grazie a lui, ho capito che la Chiesa, tutti noi, possiamo essere punti di riferimento se non smettiamo di asciugare le lacrime.

In fondo, la speranza è tutta qui…

 

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