Ho ancora negli occhi le immagini di grandi manifestazioni per la pace nel mondo e contro la guerra. Negli anni ’60 e ’70 erano davvero sentite soprattutto dai giovani.

La partecipazione è importante, ma ancora di più capire che pace non è una parola, uno slogan da gridare in una piazza, ma una scelta di vita. Pace significa prima di tutto scegliere nel cuore un cammino di pacificazione con la propria storia, con le proprie ferite, con le persone che abbiamo a fianco. Poi, far entrare il mondo nella propria vita.

Perché la pace è vera solo se passa da opere di giustizia, se fa di tutto per combattere la fame, per dare cure e istruzione a chi non ne ha, se ha il coraggio di mettersi nei panni degli altri, di chi fugge dal proprio Paese, di chi vive sofferenze indicibili. Solo una pace che si fa carico delle ingiustizie è credibile. Non ne esiste un’altra.

Con il tempo ho capito che alla pace, quella vera, quella testimoniata da Gesù, si arriva solo con i fatti. Noi crediamo nella bontà che disarma, ma non siamo buonisti. Vogliamo la pace, ma non siamo pacifisti. Ci sentiamo piuttosto operatori di pace, pacificati e pacificatori che fanno gesti concreti di pace ogni giorno. Poi, certo, dobbiamo dire con estrema chiarezza che fino a quando continueremo a costruire armi, il mondo non avrà futuro.

Questo perché le armi uccidono cinque volte.

La prima perché per essere costruite sottraggono investimenti di miliardi di dollari che potrebbero essere destinati allo sviluppo, a costruire scuole, ospedali, case.

La seconda perché per essere progettate distolgono intelligenze giovani che potrebbero essere applicate ad altri progetti di bene.

La terza perché quando sparano uccidono per davvero.

La quarta perché alimentano la vendetta e preparano la prossima guerra.

La quinta perché producono ferite inimmaginabili e squilibri atroci nei tanti reduci.

Dov’è la speranza in un mondo così? Io voglio vivere attaccato al bene, ma mi chiedo ogni giorno: “Dov’è la pace, dov’è l’opera della pace?”. Rispondere significa decidere con la ragione e il cuore di non cadere nella trappola dell’odio. Questo modo di dire pace lo abbiamo sperimentato in prima persona. Nei nostri progetti in tutto il mondo e all’interno dei nostri tre Arsenali abbiamo sempre aiutato e accolto senza distinzioni persone di ogni razza, idea politica e credo religioso. A Torino il nostro Arsenale della Piazza accoglie circa 250 ragazzi di 22 nazionalità che insieme studiano, fanno musica, sport di squadra e tante altre attività, costruendo integrazione nel nostro quartiere multietnico e imparando a diventare cittadini responsabili. La condizione è sempre una sola: riconoscersi reciprocamente gli stessi diritti e gli stessi doveri, permettendo alla bontà di disarmare le differenze. E funziona. Non solo in Italia e in Brasile ma anche in Giordania, dove il nostro Arsenale dell’Incontro racchiude la profezia di un giorno normale in cui musulmani e cristiani vivano da fratelli, rispettandosi nella loro diversità, dialogando in vista di un bene comune: i figli, specialmente quelli più in difficoltà.

Sono convinto che possa esserci un denominatore comune tra tutti gli uomini e che questo sia l’opera della pace esercitata attraverso la bontà nelle relazioni, la bontà che ha plasmato la nuova vita degli Arsenali, la bontà disarmante che non smette mai di operare.

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