Domenica  14 ottobre scorso a Roma la canonizzazione del vescovo salvadoregno e del papa bresciano. Il rapporto che lega queste figure con  papa Francesco nella lotta alle ingiustizie. 

 Di Antonio Agnelli *

L’evento della canonizzazione di mons. Romero, annunciato nel Concistoro del 19 maggio 2018, è avvenuto a Roma domenica 14 ottobre con papa Paolo VI. Davvero significativa  questa coincidenza: Romero nel suo diario segnala quanto papa Montini lo avesse incoraggiato nell’incontro avvenuto in Vaticano il 21 giugno 1978 durante la periodica visita dei vescovi al Papa detta ad limina. Romero vi arriva amareggiato dalle calunnie contro di lui e la sua pastorale che provenivano dalla sua stessa diocesi e nazione: doveva giustificare e spiegare alle istanze vaticane la reale situazione di ingiustizia e violenza che soffriva il popolo. Quando però incontra il Papa, capisce che Montini comprende la sua condizione e le difficoltà che deve affrontare. Riassumendo l’avvenimento Romero annota nel suo diario:   Il Papa ci ha fatto accomodare accanto a sé, da un lato e dall’altro, e dirigendosi a me in particolare, mi ha stretto la mano destra e l’ha  a lungo trattenuta tra le sue due mani e io anche ho stretto con le mie due mani la mano del Papa….Tenendomi le mani in quel modo mi ha parlato a lungo. Mi sarebbe difficile ripetere precisamente il suo lungo messaggio, perché oltre al fatto che non era schematico, ma assai cordiale, ampio, generoso, l’emozione di quel momento non era certo adatta per poterlo memorizzare. Però le idee principali delle sue parole sono state queste: “Capisco il suo difficile lavoro. e’ un lavoro che può essere non capito, ha bisogno di molta pazienza e forza. so bene che non tutti la pensano come lei. E’ difficile nella congiuntura del suo paese avere questa unanimità di pensiero ma vada avanti con coraggio, con pazienza, con forza e speranza.”. Mi promise che avrebbe pregato molto per me e per la mia diocesi. Mi ha domandato di compiere ogni sforzo possibile per l’unità. e se in qualche cosa egli personalmente poteva essermi utile, lo avrebbe fatto con piacere. Fece riferimento poi al popolo. Disse che lo conosceva da quando aveva incominciato a lavorare nella segreteria di stato…e che è un popolo generoso, lavoratore, che nel presente soffre molto e cerca le sue rivendicazioni.

Romero poi lascia al Papa qualche dono: tra questi un memorandum sulla fatica di realizzare la sua missione pastorale in una realtà tanto colma di violenza e oppressione, segnalando che le informazioni su di lui che giungono a Roma spesso sono diffamatorie della sua azione, per frenarla e disprezzarla. Rientrato in patria nell’omelia  della domenica 2 luglio 1978, parla del suo incontro con Paolo VI, definendolo un profeta inviato da Dio.  Non dimenticherò, prosegue Romero, quel breve ma intenso momento. Aveva raccolto parole piene di incoraggiamento, forza, consolazione che lo facevano sentire nel cuore del Papa che lo aveva sostenuto e ratificato il suo impegno. 

Vi è totale sintonia tra la predicazione e la pastorale di mons. Oscar Romero e le prospettive aperte da Paolo VI pure canonizzato insieme  a Romero, soprattutto nella Enciclica Populorum progressio, del 1967, nella lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), nella esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi.

Con Paolo VI, Romero denuncia la situazione di peccato istituzionalizzato, rappresentato dalla situazione disumana di miseria e impoverimento in cui versano milioni di persone in America Latina e nel mondo intero. il loro desiderio di liberazione è legittimo, umanamente ed evangelicamente. Il loro sforzo di emancipazione per ottenere il sacrosanto riconoscimento dei loro diritti umani, appartiene al nucleo centrale della fede cristiana, perché Dio Padre ha mandato il Figlio a liberare l’umanità dal peccato che si solidifica nei rapporti personali ma anche strutturali e economici e sostiene con il suo Spirito, lo sforzo di coloro che si spendono  e consumano la vita per realizzare il regno di Dio.

Entrambe i santi però avvertono che la liberazione dalle forze dell’oppressione tanto necessaria non può essere solo concentrata sull’aspetto storico: ci attende una grande definitiva liberazione dal male che sarà dono finale di Dio origine e patria definitiva dell’intera umanità. 

Entrambe quindi desideravano sostenere i credenti nel loro impegno specifico di testimoni del Vangelo nel mondo, perché assumendo le loro responsabilità concrete facessero passare la condizione dell’umanità da una situazione inaccettabile ad una maggiormente fraterna, solidale, rifiutando la violenza e l’aggressione.

Tutto questo implicava per Paolo VI e Romero fare come cristiani una scelta preferenziale per i poveri che non era assolutamente ideologica, ma concretizzazione pura del Vangelo. Così si esprimeva Paolo VI in una straorinaria omelia in Colombia, ai campesinos, il 23 agosto 1968, appena prima di aprire la seconda Conferenza generale dei Vescovi dell’America Latina a Medellin, di cui quest’anno ricordiamo il cinquantesimo anniversario:

Voi, Figli carissimi, siete Cristo per Noi. E Noi che abbiamo la formidabile sorte d’essere il Vicario di Cristo nel suo magistero della verità da Lui rivelata, e nel suo ministero pastorale nell’intera Chiesa cattolica, Noi Ci inchiniamo davanti a voi e vogliamo ravvisare Cristo in voi quasi redivivo e sofferente: non siamo venuti per avere le vostre filiali, e pur gradite e commoventi acclamazioni, ma siamo venuti per onorare Cristo in voi, per inchinarci perciò davanti a voi, e per dirvi che quell’amore, che tre volte Gesù risorto richiese da Pietro (cfr. Io. 21, 15 ss.), di cui Noi siamo l’umile e l’ultimo Successore, quell’amore a Lui in voi, in voi stessi lo tributiamo. Noi vi amiamo! Come Pastori, cioè come associati alla vostra indigenza e come responsabili della vostra guida, del vostro bene, della vostra salvezza. Noi vi amiamo con un’affezione preferenziale; e con Noi vi ama, ricordatelo bene, ricordatelo sempre, la santa Chiesa cattolica. Perché Noi conosciamo le condizioni della vostra esistenza: sono per molti di voi condizioni misere, spesso inferiori al bisogno normale della vita umana. Voi ora Ci ascoltate in silenzio; ma Noi piuttosto ascoltiamo il grido che sale dalle vostre sofferenze e da quelle della maggior parte dell’umanità (cfr. Gaudium et spes, n. 88). Noi non possiamo disinteressarci di voi; Noi vogliamo essere solidali con la vostra buona causa, ch’è quella dell’umile popolo, della povera gente. Noi sappiamo come nel grande continente dell’America Latina lo sviluppo economico e sociale è stato disuguale; e mentre ha favorito coloro che lo hanno al principio promosso, ha trascurato la moltitudine delle popolazioni indigene, quasi sempre lasciate ad un ignobile livello di vita e talora duramente trattate e sfruttate. Noi sappiamo che oggi voi vi accorgete dell’inferiorità delle vostre condizioni sociali e culturali, e siete impazienti di ottenere una più giusta distribuzione dei beni economici e un migliore riconoscimento del vostro numero e del posto che vi compete nella società. E pensiamo che voi abbiate qualche conoscenza della difesa che la Chiesa ha preso delle vostre sorti; l’hanno presa i Papi, Nostri Predecessori, con le loro celebri Encicliche sociali (cfr. Mater etMagistra: A.A.S. 1961, p. 422 ss.); l’ha presa il Concilio Ecumenico (cfr. Gaudium et spes, nn. 9, 66, 71, etc.); Noi stessi abbiamo patrocinato la vostra causa nella Nostra Enciclica sul «Progresso dei Popoli». Ma oggi la questione si è fatta grave, perché voi avete preso coscienza dei vostri bisogni e delle vostre sofferenze, e, come tanti altri nel mondo, non potete tollerare che codeste condizioni debbano sempre durare e non abbiano invece sollecito rimedio. Allora Noi Ci domandiamo che cosa possiamo fare per voi, dopo aver tanto parlato in vostro favore. Noi non abbiamo, voi lo sapete, diretta competenza nelle cose temporali, e nemmeno abbiamo mezzi, né autorità, per intervenire praticamente nella questione. Tuttavia questo Noi vi diciamo: Noi continueremo a difendere la vostra causa. Noi possiamo affermare e riaffermare i principi, dai quali poi dipendono le soluzioni pratiche. Continueremo a proclamare la vostra dignità umana e cristiana. La vostra esistenza è valore di primo grado. La vostra persona è sacra. La vostra appartenenza alla famiglia umana deve essere riconosciuta senza discriminazioni sul piano della fratellanza. Questa, se pur ammette rapporti gerarchici ed organici nel complesso sociale, deve essere effettivamente riconosciuta, sia nel campo economico, con particolare riguardo all’equa retribuzione, alla conveniente abitazione, alla istruzione di base, all’assistenza sanitaria, e sia in quello dei diritti civili e della graduale partecipazione ai benefici e alle responsabilità dell’ordine sociale. 

 

Entriamo in tal modo anche   nel cuore profondo della  spiritualità di Romero, intendendo per spiritualità non un vago spiritualismo, ma il lasciarsi guidare dallo Spirito Santo che agisce nell’intimo della coscienza e della vita, orientando la persona, in questo caso un Vescovo a lasciarsi trasformare e plasmare dalla sua azione imprevedibile e gratuita. La fede è sempre stata per il martire salvadoregno, la stella polare della sua esistenza, il centro di gravità permanente all’origine della sua vocazione, studio, missione, annuncio del Vangelo, custode della tradizione della chiesa e della capacità di porsi come difensore del popolo di Dio nei confronti di chi uccideva e massacrava coloro che facevano richieste legittime e umane. La sua spiritualità, il suo lasciarsi guidare dallo Spirito, lo ha portato ad esprimere tale radicamento nella fede, coniugando la sua assoluta fedeltà al Vangelo con la scelta imprescindibile per i poveri. 

 

Lasciamoci quindi guidare dalle sue parole, dalle sue omelie, guida inestimabile del Pastore che si è preso cura fino al martirio del suo gregge.

“E’ inconcepibile che alcuni si dichiarino cristiani e non facciano come Cristo una opzione preferenziale per i poveri. E’ uno scandalo che oggi alcuni cristiani critichino la chiesa perché pensa ai poveri” (omelia del 9 settembre 1979).

Fede in Cristo Figlio di Dio morto e risorto, annuncio del suo regno,  e scelta per i poveri sulle orme di Gesù stesso, sono elementi per Romero inseparabili.

“Quando disprezziamo il povero, coloro che raccolgono caffè, cotone o tagliano la canna da zucchero, il contadino che va in gruppo peregrinando  a lavorare cercando il sostentamento  per tutto l’anno, fratelli pensiamo, non lo dimentichiamo, in loro c’è il volto di Cristo. Volto di Cristo presente nei torturati e maltrattati nelle carceri. Volto di Cristo presente nei bambini che muoiono di fame perché non hanno da mangiare. Volto di Cristo presente nel bisognoso che chiede di aver voce nella chiesa” (Omelia del 26 novembre 1978).

La fede in Cristo quindi non è un velo che copre le brutture della storia, ma la luce che spinge lo sguardo fino in profondità, fino a riconoscere nel volto degli impoveriti, torturati, affamati, non solo i lineamenti di chi soffre umanamente ingiustizia, ma lo stesso e medesimo volto di Cristo, la sua presenza viva, palpitante, scandalosa, provocante e salvifica.

“Cristo insiste nelle sue apparizioni: Toccatemi, sono io! Sono lo stesso Cristo storico che, attraverso la Pasqua di morte e risurrezione, vivo incarnato sulla terra. Sono il Cristo salvadoregno. Cristo vive nel Salvador. Cristo vive in Guatemala. Cristo vive in Africa. Il Cristo storico. Dio fatto uomo vive in tutti i tempi della storia, in tutti i popoli del mondo. Questa è la caratteristica del Cristo vivo e presente” (Omelia del 2 aprile 1978).

Il Cristo storico, presente nella storia come risorto e vivente, spinge la chiesa a rifare le sue scelte, a mettersi al fianco dei poveri per annunciare il regno di Dio a tutti. 

“Arriviamo adesso alla opzione preferenziale per i poveri. Non è demagogia è Vangelo puro. Se noi ci preoccupiamo della situazione dell’impoverito, del piccolo, non in un modo qualsiasi, ma perché rappresenta Gesù, perché  la fede ci apre all’umile, all’emarginato, al povero, al malato. Guardare in essi Gesù è la trascendenza. Quando non si vede in esso che un rivale, un imprudente, qualcuno che viene a rovinarmi la festa, naturalmente il povero dà fastidio. Però quando si abbraccia nel modo in cui Cristo abbracciò il lebbroso, o come il buon samaritano cura il ferito lungo la strada, facendolo a loro, come se lo si facesse a Cristo, in questo consiste la trascendenza, senza la quale non è possibile una prospettiva di giustizia sociale, ovvero considerare Cristo presente negli impoveriti” (Omelia del 30 settembre 1979).

Capiamo bene l’intuizione profonda di Romero, all’interno dell’alveo pastorale e teologico dell’America Latina del suo tempo: non ci può essere giustizia sociale se non riconoscendo Cristo nei poveri. Si trattava per Romero di annullare l’accusa di ideologia ma senza rinunciare di una virgola all’impegno a favore dei poveri considerati presenza viva e provocante di Cristo.

Riascoltiamo ancora un brano delle sue omelie: 

“Questo è l’impegno dell’essere cristiano: seguire Cristo nella sua incarnazione. E se Cristo è il Dio maestoso che si fa uomo umile fino ad accettare la morte degli schiavi e vive con i poveri, così deve essere la nostra fede cristiana. Il cristiano che non vuole vivere questo impegno di solidarietà con il povero, non è degno di chiamarsi cristiano” (omelia del 17 febbraio 1979).

Vivere la verità del Vangelo significa per Romero guardare il cielo ma rimanendo fedele alla terra. Annunciare il regno di Dio che si compirà oltre la storia e nel contempo mordere le questioni vitali per inserirvi il lievito trasformante del Vangelo, la forza propulsiva della parola di Dio che rigenera cuore, mente, volontà, responsabilità, strutture, relazioni personali e comunitarie.

Romero aveva ben chiaro che l’amore di Dio in Gesù è per tutti, senza distinzioni. A tutti egli domandava: convertititi. Ma la strada della conversione è differente. Ai ricchi, potenti, possidenti richiedeva un cambiamento del loro modo di vivere: uno staccarsi dalla loro adorazione delle ricchezze  e volgersi, essi stessi,  a migliorare la condizione umana dei poveri.

Riascoltiamo, concludendo un frammento di un’altra omelia: “Ciò che segna per la nostra chiesa, il limite della sua dimensione politica è precisamente il mondo dei poveri….A seconda che vada a vantaggio del popolo povero, la chiesa appoggerà a partire dalla sua specificità, l’uno o l’atro progetto politico… Questo è quanto la chiesa desidera fare anche in questo momento della nostra omelia: appoggiare quanto dà beneficio al povero e denunciare tutto quanto è un male per il popolo” (17 febbraio 1980).

Dunque la predicazione e la vita stessa di Romero sono stati buona notizia per i poveri: vangelo vivente che ha tenuto assieme per opera dello Spirito, trascendenza, immanenza, condiscendenza.

Trascendenza: il vangelo è dono che viene dall’alto, immeritato e gratuito.

Immanenza: Esso si inserisce nella storia e ne modifica le relazioni, le decisioni, le prospettive.

Condiscendenza: esso non è altro che l’amore totale di Dio in Gesù che perdona e che si prende cura degli  abbandonati e impoveriti, a partire dai quali inizia a costruire il suo regno sulla terra. Agire a loro favore, come ha detto il beato Romero altro non è se non Vangelo puro.

Possiamo riscontrare anche nella  predicazione di Romero,  diverse suggestioni  che  sono presenti nei testi e nelle parole di Papa Francesco. 

L’amore a Cristo redentore dell’uomo, la fede in lui come senso della vita da tradurre però nella concretezza dell’esistenza, la costruzione di una chiesa povera e vicina alle cause degli impoveriti, la denuncia dei mali storici che crocifiggono interi popoli, la lotta contro l’idolatria delle cose materiali, del potere, del denaro che schiavizzano l’uomo rendendolo a sua volta carnefice dei fratelli, sono alcuni temi che accomunano Papa Bergoglio a Romero. 

Potremmo ben dire che papa Francesco ci conferma nella intuizione che Romero è un santo contro le idolatrie. Oscar Romero  ha sempre sottolineato la necessità di rendere vera la fede e la testimonianza sino al dono della vita nel martirio da lui avvertito come possibile dalla molte minacce che riceveva e che non facevano però venir meno la sua lucida e radicale testimonianza del Vangelo della libertà e della giustizia. Seguire Gesù è necessario perché  Lui è stato anche storicamente il modello umano del vero e autentico Liberatore.

E’ questa speranza proveniente dal Cristo vivente in eterno nella storia a dare la forza profetica a Romero e a tutta la Chiesa, di denunciare le  idolatrie del suo tempo, che sono  anche del nostro, quella del potere fine a se stesso, del denaro, della assolutizzazione dei beni privati, divenuti idoli intoccabili e per difendere i quali non si è esitato a perseguitare ed uccidere. Ritroviamo in questa prospettiva alcuni brani delle omelie di Romero di grande forza e coraggio, di grande lucidità e radicalità evangelica. Commentando il brano del Libro dell’Esodo, riguardo all’episodio del vitello d’oro l’ 11 settembre 1977: “Cosa diventa la ricchezza quando non è pensata secondo Dio? Un idolo di oro, un vitello d’oro che viene adorato, davanti al quale ci si prostra e si offrono sacrifici. Che sacrifici enormi si fanno davanti a questa idolatria del denaro: non solo sacrifici ma iniquità. Si paga per uccidere, si paga il peccato e lo si vende, tutto si commercializza, tutto è lecito per denaro. E proclamano: “ questo è il tuo Dio, Israele, che ti ha fatto uscire dall’Egitto. Non devi tener conto di questa religione falsa. Essa turba la nostra tranquillità. E’ comunista, ha sviato dalla sua missione che doveva predicarci una spiritualità che tranquillizza, che ci addormenti nella felicità dorata”. Così l’idolatria del denaro, denunciata dalla stessa parola di Dio, irrita, poiché Dio è geloso “non avrai altri dei al di fuori di me”. E’ perché la Chiesa desidera rimanere fedele  al suo unico Dio e parla come Mosè contro i falsi idoli che gli uomini stanno idolatrando che deve soffrire. La sua missione profetica è dolorosa però necessaria…..Cari fratelli, mai abbiamo predicato con risentimento o odio. Stiamo predicando con pena, amore e dolore, perché l’idolatria del denaro porta alla perdizione molti nostri fratelli e perché il cuore umano si è indurito. Lo stesso Signor presidente ha detto “E’ necessario umanizzare il capitale”. E’ necessario umanizzarlo, perché il capitale  visto nella logica del brano dell’Esodo che oggi è stato letto, convertito in un vitello d’oro schiavizza l’uomo”.

Romero mostra una profonda conoscenza biblica e soprattutto attualizza sempre il rischio presente in ogni tempo di pervertire le cose e farle diventare idoli esigenti che chiedono addirittura sacrifici umani per rimanere tali. Egli però indica sempre la radice profonda di ogni idolatria, ovvero il rifiuto di Dio e dei fratelli che si storicizza in sfruttamento e violenza.

“Non usiamo, cari capitalisti, la idolatria del denaro, il potere del denaro per sfruttare l’uomo più povero. Voi potete far tanto felice il nostro popolo se aveste un poco di amore nel vostro cuore. Che strumento di Dio potrebbero essere le vostre casseforti piene di denaro, i vostri conti bancari, le vostre fattorie, i vostri terreni, se li usaste non per l’egoismo ma per far felice questo popolo tanto affamato, tanto in necessità, tanto denutrito…..Questa non è demagogia per ottenere applausi, è ciò che il popolo sente e ama;  ama anche quelli che lo frustano, che lo sfruttano. Il nostro popolo salvadoregno non è fatto per l’odio, è fatto per la collaborazione, per l’amore e desidera incontrare fraternamente tutti i settori che costituiscono un popolo tanto benedetto da Dio, che ha ricevuto da li benti tanto abbondanti ma che però sono causa di tristezza per la cattiva distribuzione, per il peccato degli uomini”.

Non teme di chiamare in causa coloro che provocano tanta sofferenza ed ingiustizia, facendo emergere la qualità buona del popolo semplice salvadoregno, disposto sempre al perdono e alla riconciliazione se trova la disponibilità dei potenti e dei forti. Questo purtroppo non avverrà e Romero cadrà propria vittima di coloro che egli invitata a farsi carico fraternamente dei poveri e dei soffrenti. Certo le sue denunce non sono mai diminuite, anzi, più il clamore del popolo veniva soffocato nel sangue, più la sua voce diventava la sola voce che gridava in nome di Dio per ottenere il rispetto sacrosanto della dignità umana.

Nell’omelia del  12 agosto 1979, annuncia la pubblicazione della sua quarta Lettera Pastorale Missione della Chiesa in mezzo alla crisi del Paese: spiega che in questo documento egli ha voluto denunciare le assolutizzazioni presenti in El Salvador: “Denuncio soprattutto l’assolutizzazione della ricchezza. Questo è il grande male di El Salvador: la ricchezza, la proprietà privata come un assoluto intoccabile, e guai, chi tocca questo filo dell’alta tensione, si brucia. Si dimentica che l’assolutizzazione della ricchezza e della proprietà privata è un grande errore. “La proprietà privata la rispettiamo – dice il Papa – però non si deve dimenticare che su tutta la proprietà privata grava un’ipoteca sociale” Cosa vuol dire il Papa? Prendendo spunto dalla tradizione, la proprietà privata non è un assoluto, ha dei condizionamenti  che la nostra Costituzione politica di ElSalvador riconosce quando dice “….La proprietà privata con funzione sociale”. Ciò che si possiede non è solo per se stessi, ma è un dono di Dio perché venga amministrato al servizio del bene comune. Non è giusto che pochi abbiano tutto e lo assolutizzino in tal modo che nessuno possa toccarlo, e la maggioranza emarginata muoia intanto di fame”.

Romero stigmatizza poi anche l’idolatria del potere:

“Altra assolutizzazione degli uomini che hanno perduto la fede in Cristo è l’assolutizzazione del potere. Si giunge alla filosofia della sicurezza nazionale permettendo tutto in nome del dio del potere. “Risulta ridicolo – scrivo nella mia Lettera Pastorale-  che in nome della sicurezza nazionale si sia installata  nel popolo una grande insicurezza”. Questa assolutizzazione del potere è male perché il potere non è Dio; il potere non è Cristo, e se tutto si subordina al potere, ogni opinione, ogni espressione che voglia criticare e migliorare le cose, viene repressa. E questa è la repressione presente nel nostro paese, conseguenza della assolutizzazione del potere”.

Egli però non si ferma in questa denuncia, e la domenica 26 agosto torna sulla tematica, commentando il brano del Libro di Giosuè al capitolo 24, ove il condottiero biblico invita il popolo a temere il Signore e ad eliminare gli dei che i loro padri hanno servito in Egitto:

“Si sta denunciando l’esistenza del secolarismo. Chi adora un idolo è un ateo che rifiuta il vero Dio, è un seguace del secolarismo, è chiuso alla trascendenza del vero Dio. L’idolatria non è eredità di quei secoli,  anche nel nostro tempo  esistono idolatrie. Giosuè potrebbe porle ai salvadoregni, alla società salvadoregna e dire loro: “Esistono molti idoli in questa patria, idolo del denaro, idolo della politica, idolo dell’organizzazione, idolo carne, vizio, piacere, droga; quanti idoli! Se voi volete essere veri cristiani dite se volete adorare il vero Dio”. Non esiste che un Dio  e si deve smettere di adorare questi falsi idoli. E poiché la Chiesa come Giosuè proclama l’esistenza di un unico Signore, chi adora gli idoli si inquieta e non vuole che venga disturbata la falsa adorazione, però la Chiesa non compirebbe il suo dovere se solidarizzasse con le idolatrie e non indicasse al popolo che desidera essere fedele al Vangelo, che non esiste che un solo Signore,  che Lui solo si deve servire. E lo adoriamo perché è il Signore che sta salvando la nostra patria”.

Più la situazione si aggrava e la repressione diviene di una brutale violenza, più Romero insiste sulla necessità di combattere l’idolatria peccaminosa e perversa che è all’origine di tanta ingiustizia e oppressione. La sua denuncia del male dell’idolatria continua con grande vigore e lucidità evangelica. Nell’omelia del 24 febbraio 1980, prima domenica di Quaresima, commentando il brano delle tentazioni di Gesù (Luca 4, 1-13), ad un mese esatto del suo martirio, affermava:

“Cristo ha fame nel deserto però non si è fatto vincere dall’idolatria del potere. Che lezione tremenda ed attuale per il nostro tempo! Per quale motivo si distruggono gli uomini in ElSalvador? Per il potere? Non dice il diavolo che il potere gli appartiene e che è facile ottenerlo prostrandosi in ginocchio davanti a lui? Però il progetto di Dio è NO all’idolatria. Nella mia quarta Lettera Pastorale dico che uno dei servizi che la Chiesa sta prestando al mondo è quello di smascherare le idolatrie; quella della denaro, del potere, la pretesa di tenere gli uomini inginocchiati davanti a questi falsi idoli. La verità è che il progetto di Dio è “adorerai il Signore Dio tuo”. Questa è la vera soluzione. La vera liberazione del nostro popolo è insegnare agli uomini che esiste una lotta tra i facili  poteri della terra a partire dai quali si sopprimono tanto la dignità dell’uomo quanto i diritti umani e si vanno stabilendo sistemi politici che stanno addormentando le coscienze dei potenti. Guai ai potenti quando non tengono conto del potere di Dio, l’unico potente, quando si tratta di torturare, di uccidere, di massacrare per sottomettere gli uomini al potere. Che tremenda idolatria che si sta offendo al Dio potere, al Dio denaro! Quante vittime, quanto sangue; ma  Dio, il vero Dio, autore della vita degli uomini chiederà conto delle loro azioni,  a  caro prezzo, a questi idolatri del potere”.

Romero non smette di insistere sulla  necessità di una conversione delle realtà che tocchi strutture e persone per  superare l’idolatria che apporta ingiustizia e morte. Nell’ultima lunga omelia, una sorta di testamento, il 23 marzo 1980, quarta domenica di Quaresima, il giorno prima di essere trucidato, ritorna su queste tematiche in modo incisivo. Commentando  l’episodio del Vangelo di Giovanni, quello dell’adultera ( Gv 8,1-11), Romero richiama di nuovo la necessità della conversione dal peccato personale per ottenere trasformazioni strutturali davvero umanizzanti e giuste. Ed infine,  dopo aver elencato di nuovo fatti tremendamente tragici della settimana conclude col famoso richiamo agli uomini dell’esercito, alla guardia nazionale, alla polizia:

“Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli contadini? Davanti all’ordine di uccidere che dà un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: NON UCCIDERE…. Nessun soldato è obbligato ad obbedire ad un ordine contro la Legge di Dio. Una legge immorale non deve essere osservata…. E’ tempo di recuperare la vostra coscienza e di obbedire anzitutto alla vostra coscienza e non all’ordine del peccato… La Chiesa  che difende i diritti di Dio, della Legge di Dio, la dignità umana, non può restare muta davanti a tanta ignominia. Volgiamo che il Governo capisca che non valgono nulla le riforme  se sono bagnate di tanto sangue….In nome di Dio, dunque ed in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi scongiuro, vi ordino in nome di Dio: fermate la repressione! La Chiesa predica la sua liberazione, come abbiamo compreso oggi nella Sacra Bibbia. Una liberazione che mette sopra di tutto il rispetto della dignità della persona, la salvezza del bene comune del popolo e la trascendenza che guarda anzitutto a Dio e solo in Dio, poiché solo da Dio deriva la sua speranza e la sua forza”. Questa sequela del Cristo in chiave anti-idolatrica, evangelicamente ispirata e nutrita, porterà i giorno successivo Romero al martirio, durante la celebrazione dell’Eucaristia nella Cappella dell’Hospital de La  Divina Providencia, quando egli  ricordava il primo anniversario di morte della signora Sara de Pinto. Possiamo ascoltare le  ultime parole di quella ultima omelia;  precedettero di pochi minuti gli spari durante l’Offertorio:

“Questa Eucaristia, è precisamente un atto di fede. Nella fede cristiana pare che in questo momento la voce delle contese si trasformi nel corpo del Signore che si offrì per la redenzione del mondo, ed  in questo calice del vino, si trasforma nel sangue che fu prezzo della nostra salvezza. Che questo Corpo immolato e questo Sangue Sacrificato per gli uomini, ci alimenti anche per dare il nostro corpo e il nostro sangue nella sofferenza e nel dolore, come Cristo, non per noi stessi, ma per contribuire  alla giustizia e alla pace al nostro popolo”. 

Qualche istante dopo, i colpi di fucile sparati dal fondo della cappella, unirono definitivamente Romero a Cristo crocifisso e risorto. Il legame spirituale, teologico pastorale che unisce Paolo VI, Oscar Romero e Papa Francesco, è evidente segno dello Spirito Santo che rinnova i suoi doni alla chiesa perché testimoni senza timore il Vangelo di Gesù, condividendo fino in fondo il destino del suo Maestro crocifisso e risorto, annunciando con gioia la misericordia di Dio, denunciando il male personale e storico, camminando umilmente verso la pienezza del regno di Dio.

 

*Don Antonio Agnelli, è prete della diocesi di Cremona, assistente Acli.  Ha scritto diversi libri anche sulla figura di mons. Romero.