Padre Fabio Garbari è un gesuita trentino che vive e opera nella foresta amazzonica in Bolivia, a San Ignacio de Mojos. Vive in una delle ultimissime realtà sociali e culturali di quelle Reducciones gesuitiche fondate nel ‘600 per la difesa, la valorizzazione spirituale e culturale delle popolazioni indigene. Padre Fabio si batte quotidianamente contro decisioni politiche, colluse con un capitalismo estremo, che mettono a rischio sia l’identità culturale di questi popoli indigeni, sia l’ambiente in cui vivono.

Dice: «Da 10 anni vivo in questa parte  amazzonica di Bolivia e credo che il Sinodo abbia attirato numerosi sguardi sull’Amazzonia, ha aiutato il mondo a conoscere la nostra situazione.

L’Amazzonia è stata presa di mira in questi ultimi decenni e oggi è minacciata. Solo in Bolivia la frontiera agricola amazzonica è passata da 3 a 12 milioni di ettari, che vuol dire disboscare circa 800 ettari al giorno di foresta. E questo per fare posto alla soia e all’allevamento di bovini, che verro raddoppiato nel 2025. Senza parlare dell’estrazione dell’oro dai fiumi amazzonici e dell’uso del mercurio per estrarlo, (Bolivia secondo importatore mondiale di mercurio dopo l’India!) con conseguente inquinamento. Per ultimo il narcotraffico, che alimenta violenza e sta cambiando i connotati di questa gente, un tempo semplici agricoltori. «O cambiamo modello economico, o sarà la fine per tutti,  questo oramai è chiaro», dice p. Fabio.

Cosa vuol dire leggere il vangelo accanto ai poveri e agli indigeni?

Gli indigeni ti fanno da specchio anche nella lettura del vangelo. Mi accorgo che rischiamo di  ridurre il vangelo a delle banalità: comportarci bene, essere educati… Il vangelo è rivoluzionario contro l’accumulo di ricchezza, di denaro, contro un certo modo individualistico di rapportarsi con gli altri.  Il mondo occidentale accumula ricchezza, soldi, ha sete di potere, il mondo indigeno accumula relazioni con la natura e con la gente, per garantirsi il presente e il futuro. Sa bene, l’indigeno, che da solo non può nulla. E quindi la comunità è un bene da coltivare e preservare.

Querida Amazonia offre spunti interessanti?

Moltissimi! Il sogno culturale,  ad esempio. Il poliedro amazzonico è un’immagine molto efficace e molto vera. La Panamazzonia vuol dire 34 milioni di persone e di queste solo 3 milioni sono indigeni, che parlano 250 lingue di 50 ceppi linguistici completamente differenti. Cosa sono 3 milioni?, nulla rispetto al tutto. Però sono diversità. Il diamante è prezioso perché è un poliedro e non una biglia. Poliedro vuol dire che la differenza diventa ricchezza per tutti. Noi invece vorremmo limare tutto, armonizzare tutto, far diventare, appunto, il diamante una biglia!

Come fa, lei, il prete in Amazzonia?

Ho 4 parrocchie, 72 comunità che, sostanzialmente, vanno avanti da sole. Io ci sono, ma riesco a passare una o due volte l’anno. Nel frattempo si ferma tutto? Certo che no. La ministerialità cammina, celebra, vive, accompagna. Io credo che se noi chiesa non capiamo che li c’è la presenza  del sacramento è un problema nostro, non è un problema dello Spirito Santo che frena e torna indietro perché nella sperduta comunità in foresta non ha visto nessun prete ma solo una donna o un uomo che distribuiscono la comunione, si prendono cura,  danno la mano a un morente. Un giorno ce ne accorgeremo anche noi che li c’è l’eucaristia, che li c’è l’estrema unzione. Speriamo solo di non farlo troppo tardi! Comunque non è un problema, perché la gente lo ha già riconosciuto.  Accettiamo che lo Spirito sappia trovare  strade per andar avanti: il problema nostro è scoprire la ministerialità e che lo Spirito… non siamo noi!