Qualche tempo fa, alla mia porta ha bussato un signore distinto, molto anziano, che da molti anni portava un’offerta per i poveri. Quella volta aveva voluto conoscermi per raccontarmi la sua storia.

Giuseppe nel 1941 era un garzone di 15 anni. Lavorava in un’officina meccanica che produceva componenti anche per l’arsenale militare di Torino. All’epoca la fabbrica continuava a fare il suo “mestiere”, come nei conflitti precedenti: le guerre del Risorgimento, la prima guerra mondiale. Niente di nuovo sotto il sole. Centinaia di operai lavoravano notte e giorno per inviare armi al fronte. L’arsenale dava lavoro a tanti, dentro e fuori. Giuseppe quel giorno avrebbe dovuto fare una consegna. A un certo punto, fu attirato dal suono di una fisarmonica. C’erano due anziani seduti su una panchina proprio davanti all’ingresso dell’arsenale. Giuseppe si avvicinò, non disse nulla. Fu Battista a prendere la parola: “Suono da quando ero piccolo. Oggi mi sono portato dietro il mio amico Maurizio. Cerco di tirarlo su, perché ha ricevuto da poche ore la notizia che il suo unico figlio è morto sul fronte greco”. Maurizio stava piangendo, non riusciva a dire nulla, le sue parole affogavano in un dolore immenso. Battista guardò la fabbrica da cui stavano uscendo carichi di armi di artiglieria e si rivolse a quel ragazzino incuriosito dalla scena: “Vedi Giuseppe, un qualche arsenale, forse proprio questo, ha fabbricato l’arma micidiale che ha tolto la vita al figlio del mio amico. Per questo odio profondamente la guerra”.

Giuseppe non ha mai dimenticato quell’episodio. E i suoi 90 anni me lo hanno voluto far conoscere. “Battista e Maurizio – mi ha detto – non hanno potuto vedere la fabbrica di armi trasformata in Arsenale della Pace. Io sì. L’ho vista, ho capito che l’amore disarma, è più forte di tutto. Alla fine, vince”. Io e Giuseppe ci siamo abbracciati commossi. E il pensiero è andato subito al figlio di quell’uomo e ai milioni di vittime come lui. Allo stesso tempo, ho pensato a tutte le vite salvate dall’Arsenale della Pace. Lo stesso luogo, frutti diversi, la speranza di fondo che anche il male può convertirsi.

 

La trasformazione di questi anni lo testimonia, ma non è avvenuta da sola. All’Arsenale abbiamo capito che la pace non è una parola, non è uno slogan da gridare in una piazza, ma una scelta di vita. Pace significa prima di tutto scegliere nel cuore un cammino di pacificazione con la propria storia, con le proprie ferite, con le persone che abbiamo a fianco. Poi, far entrare il mondo nella propria vita. Perché la pace è vera solo se passa da opere di giustizia, se fa di tutto per combattere la fame, per dare cure e istruzione a chi non ne ha, se ha il coraggio di mettersi nei panni degli altri, di chi fugge dal proprio Paese, di chi vive sofferenze indicibili. Solo una pace che si fa carico delle ingiustizie è credibile. Non ne esiste un’altra. Non si tratta di fare cose eccezionali, ma di costellare la nostra vita, la nostra esperienza di costanza e di fedeltà. È la pace di cui parlava anche Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, una pace possibile, “fondata sulla verità, sulla giustizia, sull’amore, sulla libertà”.

Oggi questa pace è minacciata anche vicino a noi, nel cuore dell’Europa, nel bacino del Mediterraneo come in tante altre nazioni dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina. Una nuova guerra mondiale, combattuta a pezzi, in Paesi e regioni diverse, come ha detto Papa Francesco. Il non senso è sotto i nostri occhi.

 

Qualche tempo fa ero in Medio Oriente in un campo profughi e ciò che ho vissuto nel silenzio di quegli incontri lo porterò con me per sempre. Intere famiglie, nonni e nipoti, giovani, mamme e papà con i loro figli strappati alla loro vita, al loro lavoro, ai loro sogni. Nel cuore di una notte un altoparlante li ha svegliati: “O conversione o esodo forzato, con i vestiti che avete addosso e niente di più”. In appena una notte, la vita di centinaia di migliaia di persone, figli di popolazioni che abitavano quelle terre da migliaia di anni, è cambiata per sempre. Incontrandoli ho davvero visto con i miei occhi la rassegnazione, ho sentito il freddo di chi viene schiacciato dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dal male. Ho avvertito tutta la paura di chi è scappato sotto la minaccia delle armi e ho capito che la radice di ogni male è lì.

Le armi devono sparire, facendo spazio alla bontà che abbatte i muri e disarma. Nella nostra storia lo abbiamo sperimentato più volte. La bontà è l’unica chiave per dialogare con l’uomo. Solo la bontà trasforma. Avvolge il ricordo del signor Giuseppe, le sue e le mie lacrime di commozione, avvolge il dolore della storia. Non smettiamo di credere nella pace e se abbiamo fede, ricordiamoci che ai nostri desideri e alla nostra speranza in un mondo diverso si aggiunge la preghiera di milioni di anime: quelle delle vittime dei conflitti, uccise, violentate, sopraffatte. Loro oggi sono alla presenza di Dio.

 

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