Non è passato inosservato il World Population Prospect di quest’anno, che ha sancito quanto le proiezioni statistiche avevano anticipato già da tempo: il 15 novembre, il mondo ha accolto il proprio abitante numero 8 miliardi. A questo si aggiunge una seconda notizia significativa: il tasso di crescita della popolazione mondiale è al punto più basso mai registrato. Nei dati di quest’anno si trova riscontro dell’impatto dell’aumento della mortalità causato dal COVID tra il 2020 e il 2021; ma anche senza questo fattore, il tasso di crescita della popolazione era già da molti anni tendente al declino, dopo aver toccato i suoi massimi tra gli anni ’60 e gi anni ’90 del secolo scorso. Questa stabilizzazione del tasso di crescita è però distribuita in modo assai diseguale: sono le aree più povere del pianeta quelle che presentano tassi di crescita della popolazione ancora elevati: l’Asia e l’Africa sub sahariana. Secondo le Nazioni Unite, più della metà dell’aumento della popolazione mondiale previsto fino al 2050 si concentrerà in soli otto Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Tanzania.
La vera preoccupazione però non è tanto in un aumento ormai abbastanza prevedibile della popolazione mondiale (di fatto questo calcolo viene effettuato per via statistica, incrociano dati disponibili con tendenze e algoritmi, più che contando realmente gli abitanti del pianeta…); quanto che questa famiglia sempre più ampia sia incapace di fare fronte alle necessità dei propri componenti più vulnerabili. E’ da qualche anno ormai che assistiamo a due fenomeni concomitanti e collegati: da una parte aumenta il numero delle persone che soffrono la fame, con una tendenza di aumento della povertà diffuso su tutto il pianeta. Dall’altra invece vediamo una forte tendenza alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi super-ricchi, che ha toccato il suo culmine proprio con il periodo del COVID, ma la cui direzione è ben riconoscibile sin dagli anni ’80 del secolo scorso.
Ma si tratta di due fenomeni collegati? Non potremmo in definitiva lasciare che i ricchi si arricchiscano ancora, purché si dia una risposta ai problemi della povertà? Certo… se fosse veramente così! Ci sono però evidenze che le cose non vadano proprio in questa direzione. Il World Inequality Report 2022 ci ha confermato quello che da anni i dati mostravano: cioè che nei 40 anni appena trascorsi la maggior parte dei benefici dell’aumento del reddito medio a livello globale è andato a riempire le tasche già piuttosto gonfie di una ristrettissima fascia di super-ricchi. Ma l’altro dato interessante che propone il WIR 2022 è che la stessa distribuzione squilibrata si trova quando calcoliamo da chi provengono le emissioni di gas clima-alteranti di cui il pianeta sta letteralmente morendo: pochi ‘super-emettitori’ di gas-serra contribuiscono in modo determinante a impedire il raggiungimento di quegli obiettivi climatici su cui la comunità globale proprio in questi giorni sta cercando con fatica di giungere a un accordo.
Anche le persone più povere e vulnerabili del pianeta si concentrano, proprio in quei paesi più fortemente soggetti al cambiamento climatico: poco più di una settimana fa abbiamo visitato gli slums di Khulna, città del Bangladesh dove si rifugia la popolazione in fuga dalle zone costiere, colpite in modo sempre più frequente da tifoni e inondazioni. Si tratta di quei cosiddetti ‘migranti economici’ che ci sentiremmo in diritto di rispedire al mittente se mai arrivassero (e qualcuno arriva…) ai nostri confini. Ma in realtà si tratta di vere e proprie vittime di un sistema squilibrato in cui chi accumula più ricchezze e anche chi contribuisce maggiormente al cambiamento climatico.
La faglia delle disuguaglianze attraversa l’umanità, ogni paese, ogni società. Allo stesso modo la dinamica di accumulazione dei grandi patrimoni può essere letta solo in termini transnazionali e globali, ed è anche quella che ha visto l’erosione delle politiche pubbliche redistributive (attraverso diffusi fenomeni di elusione fiscale); e che si fonda su un sistema produttivo squilibrato in termini ‘predistributivi’ (cioè esso stesso orientato all’aumento delle disuguaglianze). E’ un fenomeno tipico del genere umano. Come ha notato il sociologo e politologo brasiliano Emir Sader, “… se una scimmia accumulasse più banane di quante ne può mangiare, mentre la maggioranza delle altre scimmie muore di fame, gli scienziati studierebbero quella scimmia per scoprire cosa diavolo le stia succedendo. Quando a farlo sono gli umani, li mettiamo sulla copertina di Forbes.” Troppo spesso, la disuguaglianza e l’estrema ricchezza tra noi umani è percepita come un segnale di successo e di autorevolezza, non come un’assurdità a cui porre rimedio; con il risultato che magari si dichiara di volerne limitare qualche eccesso, ma in definitiva non ci si pongono troppe domande sugli effetti delle politiche in termini di diseguaglianze, sempre implicitamente ipotizzando che esse si vadano risolvendo da sole.
E’ del tutto vero che le dinamiche demografiche squilibrate sono un problema in molti paesi del mondo: un tasso di crescita eccessivo in alcune regioni del pianeta così come l’inverno demografico in altre aree (come il nostro paese…). Ma non si possono cogliere appieno le conseguenze di queste dinamiche, se non si mettono in relazione con i due fenomeni che non solo stanno cambiando la nostra vita ma che rischiano di mettere in crisi la stessa possibilità di sopravvivenza dell’umanità ed in particolare della sua parte più vulnerabile: le disuguaglianze crescenti, il cambiamento del clima. Nessuno dei due temi sembra avere una vera rilevanza nelle priorità politiche a livello nazionale e nel dibattito globale…
Tutti i dati ci dicono la stessa cosa: le dinamiche demografiche rallentano quando le persone raggiungono un livello minimo di soddisfazione dei bisogni di base, ed in particolare quando aumenta il tasso di alfabetizzazione, educazione coinvolgimento nella vita sociale ed economica delle bambine, delle ragazze, delle donne. Sappiamo che le risorse del pianeta sono in grado di sostenere la popolazione globale e la sua prevedibile evoluzione, ma dobbiamo ancora comprendere fino in fondo che perché questo sia possibile è necessario un cambiamento nel sistema complessivo che permette a pochi di concentrare nelle proprie mani la maggior parte di quanto il pianeta ci mette a disposizione. A chi dice che è utopistico pensare a un tale cambiamento, si può semplicemente chiedere quale percorso alternativo ci sia… per il momento l’unica risposta sembra essere la ‘tecnica dello struzzo’: la testa sotto la sabbia per non vedere cosa c’è all’orizzonte di un genere umano che si ostina a non vedere a cosa siamo destinati, se continueremo a correre nella stessa direzione.
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