Spesso siamo colpiti dalla situazione di povertà che persiste sul pianeta, un pianeta il cui prodotto globale non smette di aumentare, ma in cui il numero dei poveri non accenna a diminuire. Non c’è alcuna sorpresa nel ricordare come negli anni della pandemia la fame sia aumentata: la percentuale della popolazione mondiale che non riceve sufficiente nutrimento è aumentata dall’8,4% al 9,9% in un anno ed il numero di coloro che fronteggiano una insicurezza alimentare acuta è raddoppiato. Ma occorre riflettere sul fatto che il numero degli affamati nel mondo era in aumento da ben 4 anni prima della pandemia stessa. E, fatto ancora più sorprendente, assieme alla fame le statistiche globali ci segnalano una crescita delle malattie legate all’obesità, in qualche modo l’eccesso di cibo (o più esattamente in molti casi il ‘cattivo’ cibo, che riempie, ingrassa e non nutre). In un mondo dove lo spreco alimentare è ancora un fenomeno globale, tutto questo rappresenta una enorme contraddizione: c’è troppo poco cibo? O ce n’è troppo? O è il cibo sbagliato? E perché comunque se ne butta tanto?

Possiamo risolvere questa tensione addossando la responsabilità ai consumatori finali, che certamente ne hanno: ma possiamo risolvere la questione dicendo che è ‘colpa’ di chi non si sa nutrire? Il tema della fame legata alla povertà è particolarmente significativo, perché ci mostra con chiarezza che il vero punto forse non è la fame in sé, ma il modello globale di produzione e consumo che la genera. Un ragionamento simile si può fare con la povertà. Non è possibile capire il meccanismo che ha gettato in povertà 163 milioni di persone in più durante la pandemia, se non si aggiunge che le 10 persone più ricche del mondo, nello stesso periodo hanno raddoppiato il loro patrimonio (dati OXFAM). Il meccanismo che causa fame e obesità allo stesso momento è anche il meccanismo che allarga il divario tra i più poveri e i più ricchi.

Il punto non è quindi solo la fame, oppure la povertà. Quanto il sistema che è alla base di fame e povertà. Da una parte vediamo una tendenza di lungo periodo in cui le condizioni delle persone migliorano, e le disuguaglianze diminuiscono (Thomas Picketty ha intitolato il suo ultimo libro ‘Una breve storia dell’uguaglianza’, proprio a segnalare questa tendenza). Ma con la stessa chiarezza occorre riconoscere come negli ultimi decenni le disuguaglianze non hanno fatto che aumentare, in modo trasversale in tutte le società del pianeta: in alcuni casi di più, in altri di meno (come ad esempio in Europa), ma praticamente senza eccezioni. Si può fare qualcosa? La storia stessa ce lo dice: sul lungo temine le disuguaglianze tendono a diminuire, e questo percorso dipende in modo diretto dalle politiche che possono essere messe in opera.

Ma non è il caso degli ultimi decenni. Il mondo in cui viviamo è sempre più profondamente attraversato da disuguaglianze, faglie e divisioni. E’ sempre più difficile mantenere uno sguardo di speranza e di apertura al futuro, mentre prevalgono la paura, la difesa delle proprie posizioni, la costruzione di muri, la ricerca di un nemico cui addossare ogni colpa della situazione in cui ci troviamo. Quello che rischia di prevalere in ultima analisi è la costruzione di un mondo ‘belligerante’: facciamo caso come tutti i discorsi in questo periodo – forse non sorprendentemente –  ruotino intorno alla ‘guerra’ (come farla, come vincerla…); ma quanto poco si pensi alla ‘pace’ che in qualche modo dovrà venire. L’esempio della guerra in Ucraina e della tragica e sconsiderata invasione decisa da Vladimir Putin ci mostra con chiarezza la differenza tra la pace ‘negativa’, la pura assenza di violenza generalizzata; e la pace ‘positiva’, quella fondata sulla giustizia e orientata alla costruzione di relazioni. Siamo ormai in un mondo solo concentrato sulla guerra, ma che non si pone minimamente il problema del mondo che verrà, se non in termini di vittoria o sconfitta? E l’Ucraina non è certo l’unico posto al mondo in cui si combatte. Il Tigrai, lo Yemen, il Myanmar e molti altri paesi del pianeta sono forse più lontani dal nostro cuore, ma non per questo infliggono ferite meno dolorose alla dignità umana. Mentre brillanti commentatori televisivi ci intrattengono con sicurezze di incerta provenienza su cosa sia necessario fare e perché per ‘vincere questa guerra’, pochissima attenzione viene riservata agli altri conflitti in corso e forse ancora meno a cosa sia necessario per ‘vincere la pace’.

La povertà, la disuguaglianza, l’esclusione sono spesso causa di conflitto. E il conflitto genera una spinta verso ulteriore fame e povertà che si ripercuote fatalmente sui paesi più fragili. L’effetto del conflitto in Ucraina sui prezzi dell’energia e sulla produzione di cereali sta mettendo a dura prova molti paesi del sud globale. E la guerra non cessa quando le bombe smettono di cadere: una guerra continua a produrre i suoi effetti per molti anni dopo la sua fine: mine, munizioni inesplose, ma soprattutto divisioni che solo il tempo potrà guarire. E se guardiamo il passato anche recente, vediamo tutte le guerre che ci sono state presentate come giuste e inevitabili, tutte animate da profondi motivi di valore, e tutte presentate come destinate a rapide e inevitabili vittorie. Chiediamoci cosa queste guerre hanno prodotto in termini di ‘valori’, e anche in termini militari: vedremmo un bilancio magro e terribile, in Irak, in Afganistan, a Belgrado…

E’ possibile un ordine mondiale diverso? Forse qui l’occidente è ancora abbagliato dall’idea di ‘fine della storia’: un post guerra fredda in cui, caduto il socialismo reale, non rimaneva che il sistema occidentale; e dove forse si cerca ancora una via di uscita in prospettiva novecentesca, fermi ancora su quelle stesse contrapposizioni che contrassegnarono il ‘secolo breve’. Ma forse il mondo non è più così, nonostante molti sembrino pensarlo (e a comportarsi di conseguenza!). E’ invece un mondo dove esistono diversi centri di potere geopolitico ed economico, dove per l’occidente è difficile rivendicare una centralità erosa sul piano politico/economico, ma anche scardinata sul piano dei valori dalle varie Juantanamo e Falluja, così come dalla strage dei migranti nel Mediterraneo alle porte della ‘Fortezza Europa’…

L’alternativa alla legge del più forte è un sistema realmente multilaterale. Si tratta di una scelta faticosa, ma è l’unica che ci rimane: un sistema regolato che ci permetta di dialogare con tutti. Oggi questo sistema è fortemente in crisi e si rincorrono le sirene di ‘Club di potenti’ come il G7 o il G20, o le luci abbaglianti di un potentissimo settore privato transnazionale: come quello di chi sta costruendo immensi profitti sulla produzione di vaccini contro il Covid 19, esercitando un potere così forte sui governi e sulla stessa Unione Europea, da imporre contratti segreti finanziati profumatamente da risorse pubbliche. E da imporre, anche al nostro paese, un arresto alla richiesta di sospendere i brevetti su quanto serve a lottare contro la pandemia che era stata avanzata da una maggioranza di paesi guidati dall’India e dal Sud Africa. Anche l’Europa è chiamata a una scelta di campo che finora non ha compiuto, non ‘contro’ qualcuno, ma a favore di un mondo pacifico, in grado di difendere realmente e senza tentennamenti i valori che troppo spesso vengono un po’ vanamente proclamati.

Il sistema multilaterale è l’unica cosa che ci rimane, anche se non è davvero in forma. Ma deve essere salvaguardato, perché i conflitti che attraversano l’umanità non possono essere superati se non facendo ricorso al dialogo. Non tanto nell’illusione che si possano facilmente fermare le armi che in questo momento stanno tuonando sempre più forte, ma per creare le condizioni in cui in futuro il ricorso alle armi si allontani sempre di più.