La pandemia ha allargato la forbice delle diseguaglianze. Si è allargata e inasprita tra ricchi e poveri[1], tra territori, tra generazioni, tra “informatizzati” e non, tra chi è immerso in relazioni salde e chi si è ritrovato in solitudine. Le distanze sono aumentate anche perché la pandemia si è innestata in una frattura più profonda presente nella nostra società, generata quella che Papa Francesco ha indicato come «tristezza individualista» (Evangelii Gaudium n. 2). Anche in Fratelli tutti l’ha ricordato: «l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna» (105). Un virus che infetta persino l’idea grande dei diritti: «Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire individualistici –, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” […]. Se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze» (111).

La pandemia ci consegna un mondo diverso e l’occasione di apprendere alcune lezioni importanti da cui partire per ripensare un modello di società. Paradossalmente, infatti, il virus ha accorciato alcune distanze: le ha scavalcate. Ha colpito tutti, tutto il mondo: il Nord e il Sud, le città e la zone più remote, i ricchi e i poveri, gli intellettuali e le persone senza strumenti culturali, gli imprenditori e gli operai. Anche chi sembrava “al riparo”: i ministri, i vescovi, gli scrittori famosi, i potenti della terra, persino gli “dei” dello sport. Anche qui non sono mancate differenze: la possibilità e rapidità dell’accesso alla diagnosi e alle cure, l’efficienza delle strutture sanitarie, la possibilità di vivere in spazi adeguati durante il lockdown, l’accesso alle informazioni corrette, la consapevolezza dei rischi e delle possibilità di evitarli senza perdere il lavoro…

La pandemia ci ha però ricordato che davvero, di fronte alla fragilità della malattia e alla morte, siamo più uguali di quanto le enormi differenze economiche, sociali e culturali ci fanno pensare; il virus ci ha fatto toccare con mano che veramente quella umana è una famiglia sola, al di là di tutte le differenze e le distanze. Ci ha fatto anche capire che proprio in quanto famiglia si salva solo se si comporta come tale: se ciascuno avverte la responsabilità nei confronti di tutti coloro che ne fanno parte e verso la casa comune in cui abitiamo; se ci pensiamo come fratelli e sorelle, chiamati a custodire ciò che ci rende tali.

La pandemia è stata ed è la possibilità di cambiare il nostro sguardo. Direi di più, di cambiare il sentimento epidermico. Potrebbe insegnar a vedere e comprendere in maniera differente le aspirazioni, la vita e le lacrime di coloro conoscono fin troppo bene il senso di incertezza, di timore e di impotenza che anche noi abbiamo sperimentato in questi mesi; e lo conoscono perché ci sono nati e cresciuti dentro: a causa della povertà, della guerra, degli sconvolgimenti climatici, della criminalità, della discriminazione.

Abbiamo la responsabilità di custodire quel senso di com-partecipazione, di com-passione, di fiducia reciproca, di unità che abbiamo respirato, anche se a volte in forma più retorica che reale, quest’anno. Ma anche se c’è stata una certa retorica, a noi spetta la responsabilità di non lasciare cadere la spinta mobilitante, la capacità evocativa, la forza coinvolgente dell’esperienza vissuta, e ancor più difficile, tradurla in senso di appartenenza reciproca, in generosità autentica, in fedeltà nel tempo.

Bisogna perciò fare i conti con la pandemia, non far passare “inutilmente” questo momento storico.

La generazione più colpita dal virus è quella che ha visto la guerra e ha vissuto la difficile fase della ricostruzione del nostro Paese. Una generazione che ci ha parlato della povertà e della semplicità dell’infanzia vissuta, dell’angoscia con cui si partiva mettendo tutte le proprie cose dentro una valigia per andare a cercare fortuna al Nord oppure all’estero; della passione con cui ci si schierava politicamente di qua o di là, per tutta la vita, con un mondo diviso in due e con l’incubo della bomba atomica.

Noi, invece, ci eravamo persuasi che tutte queste fossero cose del passato, che a noi non sarebbe potuto accadere. Noi che siamo nati nell’emisfero giusto, dalla parte fortunata del mare, pensavamo di appartenere a una delle pochissime, o forse alla sola generazione nella storia dell’umanità per la quale tutto era garantito, tutto poteva essere dato per acquisito: il benessere, la salute, il lavoro, la pace, la democrazia. Non per tutti, ma per molti. Eravamo convinti che le guerre sarebbero rimaste lontane, anche quando erano vicinissime, al di là dell’Adriatico o del Mediterraneo. Che fame e povertà avrebbero continuato a rappresentare un problema anche qui, certo, ma per una fascia contenuta della società. Per non parlare del Creato, che per quanto sfruttato e maltrattato avrebbe continuato a offrirci le sue risorse, almeno per qualche secolo. Ci siamo convinti che persino la difficile crisi economica scoppiata negli scorsi anni sarebbe stata superata senza cambiare granché delle nostre abitudini e dei nostri sogni. Che le istituzioni democratiche, sopravvissute ai grandi conflitti ideologici e agli anni bui del terrorismo, fossero ormai in grado di resistere a tutto. Che l’Europa fosse talmente consolidata da poter scherzare col fuoco della dissoluzione e che un po’ di sano egoismo nazionale, in fondo, non avrebbe che preservato il nostro benessere.

I giorni drammatici che stiamo vivendo ci dicono che non è così. Che anche a noi può capitare che la storia bussi alla porta e presenti il conto. Che non è detto che la scienza e la tecnica ci rendano invincibili. Che anche a noi, la generazione nata e cresciuta al sicuro da ogni pericolo, tocca passare attraverso una di quelle vicende della storia che travolgono ogni cosa, lasciando molte macerie alle proprie spalle.

Le tante ferite che questa esperienza ci sta infliggendo dovrebbero farci prendere maggiormente coscienza della fragilità di ciò che pensavamo inscalfibile e che ci siamo abituati a dare per scontato: la pace, il benessere, la democrazia, che se non viene custodita con cura e partecipata con passione si svuota dall’interno e appassisce.

Occorre un “progetto comune”, occorre un progetto politico in senso pieno del termine (pieno, non “solo” alto). Ci sono responsabilità “della politica” (e della classe dirigente economica, intellettuale… ) che vanno sollecitate e “misurate” in termini di scelte, di mancati investimenti (in educazione, sanità, coesione sociale), di linguaggio e di assenza di progettualità. Ci sono però anche responsabilità della società civile a cui è chiesto, oggi, un compito “politico in senso pieno”: formare e accrescere il senso critico, ripensare in termini di progetto, di costruzione della speranza comune e, ancora, tenere insieme le parti invece che lacerare. Solo grazie a questi sforzi condivisi, intessuti e pensati attorno ad una cultura dell’alleanza tra le parti, potremmo guardare oltre questo tempo senza passarci sopra e provare a pensare una società diversa.

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[1] Il bisogno di assistenza si è esteso a fasce di popolazione prima fuori dall’area della povertà; le prospettive di riscatto sono state spazzate via per chi viveva in una situazione di povertà “cronica”. Si veda il drammatico dato dell’incremento del 12,7% di persone seguite da Caritas nel 2020, in cui i “nuovi poveri” rappresenta quasi la metà degli assistiti.