Crescono le diseguaglianze nel mondo e crescono l’insicurezza e la violenza a livello internazionale. Nel corso dell’ultimo decennio la sicurezza globale è andata deteriorandosi significativamente, anche a causa delle principali sfide che la Comunità Internazionale non sta affrontando adeguatamente (fame, povertà, cambiamenti climatici, speculazioni finanziarie, ecc.). A farne le spese soprattutto i civili, i più poveri, gli “scarti”, per dirla con Papa Francesco. Il numero di profughi costretti a mettersi in fuga è in costante crescita e sfiora ormai i 70 milioni, un numero dentro il quale si celano tragedie fra loro diverse, quali i più di 12 mila morti accertati nell’attraversamento del Mediterraneo verso le coste europee dal 2015, la fuga di centinaia di migliaia di Rohingya dai massacri perpetrati a Myanmar, o le condizioni disumane a cui la guerra costringe 18 milioni di yemeniti che non hanno dove scappare. Lo mette in evidenza anche la nuova ricerca sui conflitti dimenticati di Caritas Italiana, “Il peso delle armi” recentemente pubblicata.

Su molti fronti di conflitto gli anni recenti sono stati segnati dalla mobilitazione jihadista e della cosiddetta ‘guerra al terrore’ combattuta da stati, coalizioni di stati e organizzazioni internazionali. A diverse latitudini, gruppi armati islamisti spesso nati nel vivo di conflitti locali protratti, hanno aperto fronti di insorgenza e combattimento aperto, che sono culminati nella proclamazione di territori amministrati da formazioni combattenti nel nome della shari’a. Per quanto non esista (significativamente) consenso circa la definizione di terrorismo, l’annus horribilis per letalità da parti di formazioni jihadiste è stato il 2014, in corrispondenza con la proclamazione del Califfato da parte del sedicente Stato Islamico (Daesh, ISIS) e l’abolizione del confine che dalla fine della Grande Guerra – di cui è appena ricorso il centenario – ha segnato la linea di frontiera fra Iraq e Siria. Decine di migliaia di morti si contarono allora sui fronti in cui operava la macchina da guerra di Daesh, che apriva colonie e provincie in diversi altri paesi vicini e lontani, ed arrivò ad annoverare fra i propri iniziati una delle formazioni più letali, il nigeriano Boko Haram.

Questa fase segna anche un picco di letalità nell’azione di al-Shabaab, formazione restata nell’orbita qaidista e attiva nel Corno d’Africa. Da allora, il numero di attacchi e di vittime, così come la capacità di governare territorio da parte dei miliziani jihadisti, sono stati gradualmente contenuti tramite interventi militari regionali, controffensive e battaglie strada per strada condotte dai rispettivi governi, assistiti da medie e grandi potenze nella riconquista delle città, senza peraltro che le tensioni e le ferite che hanno prodotto questi conflitti venissero affrontate.

Se si considera la parabola di ascesa e apparente declino dello ‘Stato Islamico’ fra Medio Oriente, Africa ed Asia, includendo le propaggini di attacchi terroristici in Occidente, emerge con evidenza come i livelli e le modalità con cui è stata impiega la violenza armata negli ultimi anni non abbiano precedenti. Conflitti a lungo considerati come locali hanno subito fenomeni di internazionalizzazione lungo le linee della mobilitazione jihadista (territoriale e virtuale), così come in quella di molteplici fronti anti-terrorismo (un termine che spesso, in diversi contesti regionali, ha finito per includere l’azione repressiva contro ogni forma di opposizione politica).

A 18 anni dalla proclamazione della war on terror da parte degli Stati Uniti all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle di New York, oltre 30 mila missioni di bombardamento statunitensi contro Daesh e un numero non molto inferiore di sortite aeree russe in appoggio al regime di Assad, il terrore resta propagato ovunque: molti conflitti armati si sono espansi ed intensificati, ed è un fatto che le guerre si susseguono senza che siano rintracciabili prospettive di pace, senza che – al di là di vani proclami  – si ponga un freno alla continua crescita delle spese militari e senza che la Comunità Internazionale sia capace di intraprendere iniziative significative di riconciliazione su scala globale. Occorre un’inversione di tendenza, che vada alle radici delle guerre, che ne estirpi la cause e le interconnessioni con altri fenomeni globali. A partire dalle diseguaglianze. Non è impossibile. Serve una volontà politica, di una buona politica, lungimirante e alla ricerca del bene comune, come insegna Papa Francesco.