L’esigenza di un orizzonte comune per affrontare le sfide del tempo in cui viviamo è la questione cui la comunità globale ha cercato di rispondere con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata nel settembre 2015 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma quanto è‘sostenibile’ lo ‘sviluppo sostenibile’? Nel dibattito corrente la ‘misura della sostenibilità’ è quella relativa al raggiungimento degli ‘Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile’, che cercano di rendere misurabili tutti gli elementi che di questo sviluppo sostenibile si considerano fare parte. Tutti o quasi tutti, anche perché dilatando gli ‘obiettivi specifici’ in cui ogni OSS è articolato, fino a contare 169 ‘targets’ in totale, e identificando (peraltro ancora in modo tutt’altro che completo) i 232 indicatori necessari alla misurazione di tutto l’insieme, ci si trova di fronte ad un meccanismo articolato e complesso, che già ora sta dimostrando un certo numero di crepe. Anche a guardare a come sono espressi nel dettaglio obiettivi, targets e indicatorinon mancano numerosi interrogativi.

Il rischio è quello di ‘contare quello che non conta’ e ‘non contare quello che conta veramente’. Basta però leggere la Dichiarazione che introduce l’Agenda 2030 per trovare alcuni elementi di grande rilevanza, e purtroppo non pienamente rappresentati negli obiettivi di sviluppo sostenibile che seguono la dichiarazione stessa. E’ il caso dei diritti umani, la cui DichiarazioneUniversale venne adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10dicembre di settant’anni fa, e che rappresenta la prospettiva su cui fondare una riflessione veramente ‘trasformativa’ sul mondo attuale; anche su quei fenomeni di diseguaglianza crescente che ne rappresentano una delle principali chiavi di lettura. Proprio una riflessione sui temi della disuguaglianza va in primo luogo radicata nel riconoscimento dei diritti economici e sociali, i quali impongono agli stati di affrontare e/o prevenire la diseguaglianza, nella misura in cui essa costituisce un ostacolo al pieno godimento dei diritti umani. Non si può naturalmente assumere che la disciplina internazionale dei diritti umani possa imporre delle azioni specifiche o dettare particolari condizioni nella distribuzione del reddito e della ricchezza; tuttavia, se si considerano le implicazioni in termini di equità nella realizzazione dei diritti economici e sociali, si identificano dei chiari vincoli nelle condizioni in termini di disuguaglianza, nel caso in cui alcuni membri della società non possono godere di tali diritti mentre altri membri della società si trovano in una condizione di sovrabbondanza.

Visto in questa prospettiva, non si può certo confinare il tema della diseguaglianza nell’obiettivo 10 dell’Agenda 2030, con indicazioni relative in massima parte alla disuguaglianza di reddito. Deve invece rappresentare una preoccupazione assai più trasversale, in grado di evidenziare gli elementi di concentrazione del potere sociale e politico che rendono la voce dei più poveri e dei più vulnerabili sempre più marginale nei processi di presa delle decisioni. E’ infatti la diseguaglianza in termini di voce e rappresentanza ad essere per certi aspetti alla radice delle sue manifestazioni concrete (in termini economici, o di accesso ai servizi). Fondare lo sviluppo sostenibile sui diritti inalienabili della persona umana, rappresenta una premessa gravida di conseguenze; implica anteporre questi diritti a ogni scelta di merito, anche se essi entrano in rotta di collisione con interessi magari meglio rappresentati. In chiave di Agenda 2030, significa tra l’altro necessariamente interpretare il principio del ‘non lasciare indietro nessuno’,come ‘non lasciare indietro la voce di nessuno’

Assieme alla diseguaglianza, tra gli elementi che caratterizzano il mondo contemporaneo c’è senz’altro quello relativo ai conflitti che attraversano il pianeta. Si tratta di due fenomeni strettamente legati: le diseguaglianze sono una delle più importanti fonti di tensione e di conflitto nelle società; e i conflitti stessi sono a loro volta fattore di inasprimento delle polarizzazioni esistenti, dei fenomeni di diseguaglianza, marginalizzazione, vulnerabilizzazione. Secondo il SIPRI, la situazione attuale del conflitto nel mondo è segnata da un peggioramento di tutti gli indicatori, con un aumento dei livelli di spesa militare, di commercio di armi, del numero di confitti violenti.

Anche nell’Agenda 2030 il tema del conflitto è considerato come uno degli elementi che minacciano tutti i progressi allo sviluppo degli ultimi decenni. In particolare, l’obiettivo 16 è dedicato alla promozione di società pacifiche ed inclusive, accesso universale alla giustizia, e istituzioni responsabili ed efficaci. Ma anche in questo caso, tale obiettivo rischia di offrire una lettura limitativa rispetto al tema del conflitto e della violenza globale, incluse le necessarie implicazioni relative al commercio delle armi. Per come la questione viene declinata, all’interno di un insieme di argomenti non particolarmente coeso ed incisivo, si tratta in particolare di “…ridurre ovunque e in maniera significativa tutte le forme di violenza e il tasso di mortalità ad esse correlato”, e di “…ridurre in maniera significativa i flussi illeciti di […] di armi…”.

Non è difficile cogliere un certo livello di “cortocircuito”tra questi due targets: è chiaro infatti che la mortalità collegata ai conflitti non dipende esclusivamente dai flussi “illegali” di armi: a partire dal fatto che quasi tutte le armi generalmente iniziano la vita in modo“legale”, i flussi “illegali” non rappresentano che una frazione degli armamenti usati nei conflitti. Ci si trova qui in presenza di una macroscopica evidenza: i paesi più ricchi sono anche quelli che maggiormente contribuiscono alla produzione e al commercio di armi, ma sono anche quelli in cui meno si ritrovano le conseguenze più nefaste dei conflitti stessi. Tutto questo mette in evidenza un elemento di forte debolezza del framework proposto dagli SDGs: ogni paese può infatti reclamare uno stato di avanzamento nella propria condizione di sviluppo sostenibile anche a dispetto di un elevato grado di militarizzazione della propria economia, in una sorta di trasferimento dell’onere della prova dai paesi dove i conflitti hanno in qualche modo radice, e dove magari l’industria degli armamenti rappresenta un importante volano dello sviluppo economico, a quelli che dei confitti sono vittime.

Le questioni sopra menzionate trovano una plastica illustrazione con il caso del Sulcis Iglesiente, regione della Sardegna, profondamente caratterizzata dalla realtà delle miniere che hanno segnato la sua storia industriale. La crisi occupazionale che ha contrassegnato la lunga fase di dismissione del settore minerario ha lasciato il territorio in condizioni drammatiche, con una parte della struttura industriale dell’indotto minerario che ha trovato riutilizzo in altri settori; è il caso del sito industriale di Domusnovas, tradizionalmente luogo di produzione di esplosivi a destinazione civile che, a partire dal 2001 viene destinato alla produzione di armamenti (in particolare bombe da aereo).

In un contesto di riflessione sullo sviluppo sostenibile appare estremamente interessante il modo in cui tale mandato globale si riflette nel comportamento degli operatori economici: in che termini è“sostenibile” un’azienda che produce armi? Nel caso della Rheinmetall Group (laholding di cui fa parte la RWM Italia, proprietaria dello stabilimento di Domusnovas) tale elemento emerge dal Corporate Responsibility Report 2017 dove appare un capitolo, particolarmente significativo e per certi aspetti paradossale, sull’impegno della Rheinmetall nell’accoglienza di profughi provenienti da zone di guerra. La presentazione di tutta l’attività di produzione di armi, a partire dal titolo/slogan “force protection” è incentrata sul concetto di protezione, che ritorna in innumerevoli declinazioni suggerendo l’immagine di armi “buone” perché pensate per “difendersi”. E quindi forse ‘sostenibili’ anch’esse.

Ma proprio a Domusnovas, si sviluppa una crescente e documentata produzione di bombe destinate all’Arabia Saudita, che vengono usate in uno dei conflitti più tragici e dimenticati del nostro tempo, quello inYemen, dove ai drammi della guerra si aggiungono quelli della carestia e dell’epidemia di colera. Nel marzo del 2015, l’Arabia Saudita dà il via a un intervento militare, unilaterale e senza alcuna copertura da parte delle Nazioni Unite, alla guida di una coalizione composta da alcuni altri paesi, soprattutto delGolfo e di fatto sostenuta da USA, Francia e Regno Unito, con l’obiettivo di soffocare la ribellione degli Houthi (che molte fonti indicano come a loro volta sostenuti dall’Iran e da Hezbollah), segnato da fasi alterne che portano ormai importanti aree del paese sotto il controllo di Da’esh e di Al Qaeda. Si tratta di una guerra contraddistinta da numerosissime violazioni dei diritti umani e delle leggi di guerra equamente divise tra le diverse parti in causa, tra cui alcuni bombardamenti su obiettivi civili effettuati dall’Arabia Saudita dove è stato documentato l’uso di bombe costruite in Italia.

Tali elementi di forte problematicità sono stati però ignorati dalla politica che, sia nella passata che nell’attuale legislatura non è riuscita a mettere in dubbio le autorizzazioni all’esportazione di bombe sarde, concessi in contraddizione con il dettato della legge italiana che regola il commercio delle armi, la 185/1990, e con la posizione ripetutamente affermata dal Parlamento Europeo. Il caso esposto pone in generale un rischio avvertibile: quello che l’Agenda 2030 e degli SDGs finiscano per non riuscire a misurare (attraverso il sistema di obiettivi e targets) le forti tensioni e contraddizioni che hanno sicuramente una rilevanza in termini di sostenibilità, di diritti, di principi. L’elemento del commercio delle armi non può rimanere estraneo a questa discussione, ed è necessario alzare nuovamente l’attenzione sul tema attraverso la valorizzazione della relazione al Parlamento prevista dalla legge 185, inserendone la considerazione nel piano nazionale per lo sviluppo sostenibile. E’ un passo importante che deve essere fatto: siamo abituati a pensare all’industria militare come a una “eccellenza” italiana, senza dare troppo peso alle implicazioni, incluse quelle relative all’articolo11 della Costituzione (che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali), pure richiamato dalla Legge 185 come elemento che deve condizionare la posizione italiana su questo tema.

La produzione delle bombe di Domusnovas avviene attualmente nel rispetto della legalità formale, ma è necessario invece porre la questione relativa alla sua legittimità etica e sostanziale, soprattutto a partire dai primi articoli della legge 185, che proibisce esplicitamente l’esportazione e transito di armi “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa”. Essa impone inoltre al governo di predisporre “misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa”. Si tratta di principi che nel tempo attuale potremmo definire come perfettamente congruenti con le priorità espresse dall’Agenda 2030. Allo stesso modo è chiaro che il tema della compatibilità tra modelli di sviluppo e principi fondati sul rispetto dei diritti umani trova in questi ultimi un serio punto di attenzione, laddove invece rispetto ad una lettura ristretta degli SDG, la produzione ‘legale’ di armamenti da guerra non rappresenta alcun tipo di criticità, anche se questi vengono impiegati in situazioni contestate e sanzionate a livello internazionale.

E’ proprio il ruolo del commercio delle armi nel mondo contemporaneo, la situazione dei conflitti e la percezione di queste tematiche da parte delle generazioni più giovani a essere al centro del volume ‘Il peso delle armi’, frutto della collaborazione di Caritas Italiana con Avvenire,Famiglia Cristiana, e il Ministero dell’Università e della Ricerca. Per costruire un mondo realmente sostenibile occorre infatti riflettere affrontare con serietà il tema dell’economia di morte: si tratta di un passaggio obbligato in un percorso che vuole proporre un’alternativa positiva, un modello disviluppo rispettoso della dignità di tutte le donne e di tutti gli uomini che popolano il nostro pianeta.