Ci capita molto frequentemente di sentir parlare del nostro Paese in modo dispregiativo: i servizi che non funzionano, la sanità che arranca, la scuola che cambia in peggio. Questo avviene anche nell’ambito della psichiatria, un campo d’azione pubblica veramente complicato. In queste critiche c’è senza dubbio una parte di verità, ma esse spesso ci fanno dimenticare quanto di buono facciamo. Se guardiamo i numeri emerge una situazione che racconta d’altro. Secondo gli ultimi dati del Ministero della Salute, infatti, “le prestazioni (in ambito della salute mentale) erogate nel 2019 dai servizi territoriali ammontano a 10.944.849 con una media di 14,2 prestazioni per utente. […] Inoltre, le giornate di presenza presso strutture residenziali sono pari a 11.318.853 per 27.502 utenti; la durata media del trattamento a livello nazionale è pari a 1.044,9 giorni. Gli accessi nelle strutture semiresidenziali sono pari a 1.520.488 per 26.269 persone (316,4 accessi per 10.000 abitanti)”. Si tratta quindi di numeri importanti per cui vengono spese cifre veramente enormi: si stima che nel 2019 (ultimo dato disponibile) per l’assistenza psichiatrica territoriale siano stati spesi oltre 3 mld di Euro.

Ma la nostra forza non è soltanto nei numeri; nell’ambito dell’assistenza psichiatrica abbiamo la fortuna di avere un ordinamento che ha saputo guardare avanti, che ha fatto scuola nel mondo, anche se il suo disegno non è ancora completamente realizzato. Ci riferiamo alla legge Basaglia (L. 180/78), che, come sappiamo, prevede il superamento dei manicomi, la volontarietà e il consenso del paziente e l’integrazione tra sociale e sanitario. Quest’ultima previsione della legge è d’importanza dirimente. E ieri come oggi rappresenta il nostro tallone d’Achille.

Infatti, non poteva né può essere veramente superata l’istituzionalizzazione brutale del ‘900 (come prevede la legge Basaglia) senza un territorio in grado di accogliere e curare le persone con sofferenza psichica, senza che il comparto medico dialoghi con quello sociale. Lo sanno bene quanti in tutti questi anni hanno lavorato nei territori, e in particolare quanti hanno creduto nella possibilità di cambiare la vita dei malati psichiatrici attraverso metodi differenti dai manicomi.

L’integrazione dei servizi sociali con quelli sanitari ha trovato nella legge quadro 328 del 2000 una leva formidabile, che ancora deve essere implementata del tutto.  Per questo oggi è importante monitorare l’andamento della realizzazione da essa ipotizzato. È fondamentale continuare ad insistere, anche se dalla sua approvazione sono passati più di 20 anni.

Ma a che punto siamo con la 328?

La legge prevede che si realizzi ogni 3 anni un Piano Nazionale per gli Interventi e i Servizi Sociali (PNISS) e assegna allo Stato il compito di garantire a tutti i cittadini e su tutto il territorio nazionale i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali. Tuttavia, la riforma del Titolo v della Costituzione (che ha modificato/complicato le ripartizioni delle competenze tra Stato, Regioni ed Enti Locali) e il tradizionale sottofinanziamento dei servizi sociali hanno reso praticamente impossibile la realizzazione dei LEPS, di fatto depotenziando la legge 328/2000 succitata. Eppure, oggi è evidente una rinnovata sensibilità. Ciò, probabilmente, è anche il frutto della ratifica di importanti trattati come ad esempio la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000 e 2007), la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia (1989 ratificata nel 1991), la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (2006 ratificata nel 2009) e di alcuni provvedimenti nazionali, come il D. lgs. 147/2017, che ha istituito il Reddito di Inclusione, poi divenuto Reddito di Cittadinanza.

Che il clima stia cambiando lo vediamo anche nel PNISS già citato: tra il 2021 e il 2023, saranno ben 21 i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali che verranno finanziati, prevedendo una stabilità nel tempo e, quindi, un’esigibilità pari a quella ormai consolidata in ambito sanitario. Si tratta di un passo importante, anche se siamo ben lontani dalla completa realizzazione del sistema disegnato dalla Legge Quadro.

Ulteriori segnali di cambiamento li troviamo, come detto, in ambito europeo. Questi segnali trovano la loro (parziale) concretezza nel PNRR, di cui una parte delle risorse è dedicata alla “Salute” (15,6 mld di Euro) e all’“Inclusione e Coesione” (19,8 mld di Euro).

All’interno di questa cornice progettuale, assumono particolare rilevanza le Case della Comunità.

Con il PNRR il Governo tratteggia un quadro preciso, che pone la “casa come primo luogo della cura” e mira a superare il vecchio modello fondato quasi esclusivamente sull’istituzionalizzazione ed eccessivamente sbilanciato sul versante sanitario. Ci sono, dunque, altre possibilità, altri luoghi, oltre agli ospedali e le cliniche, dove le malattie (anche quelle psichiatriche) possono trovare accoglienza. Tra questi sicuramente compaiono le 1288 Case della Comunità previste dal PNRR stesso.  Si tratta di luoghi fisici che superano il concetto di servizio e prestazione sanitaria tradizionale e che, valorizzando le risorse sociali e sanitarie presenti sui territori, provano a concepire un altro modo di fare welfare. La scelta stessa di chiamare questi luoghi “case” ha un significato politico/culturale preciso, che le rende diverse da un poliambulatorio sanitario. Casa, infatti, è un posto dove si abita, con cui si ha familiarità e confidenza. Ed è proprio questo uno dei principi che ispirano le Case della Comunità: occorre costruirle intorno ai bisogni e non semplicemente per rendere dei servizi.

Siamo consapevoli che di errori, pur in buona fede, in questi anni ne sono stati commessi molti. Spesso, infatti, quelle che in passato abbiamo chiamato Case della Salute si sono trasformate in semplici poliambulatori, certamente utili, ma poco intersecate con il sociale. Probabilmente ancora non eravamo pronti a questo tipo di cambiamenti.  In futuro non potremo più separare il sociale dal sanitario, continuare a considerare le persone in modo scomposto. Al contrario, dovremo assumere un approccio olistico che consideri la persona nella sua totalità, che sappia anche mettere a sistema tutte le potenzialità che il territorio offre. Dobbiamo creare un ambiente che sappia accogliere i malati (anche quelli più problematici) e le loro famiglie contemporaneamente. Particolare riguardo va riservato a quei cittadini che soffrono maggiormente, come le persone/famiglie affette da disturbi psichiatrici, sicuramente tra i più difficili da prendere in carico.

Quest’approccio richiede un impegno collettivo notevole, dove tutti devono fare la loro parte, a partire dai cittadini che devono impegnarsi per la loro salute, dagli operatori che devono collaborare con altri professionisti, dai Comuni che devono acquisire capacità progettuali differenti… Siamo di fronte a una piccola rivoluzione che può cambiare anche il nostro modo di esercitare la cittadinanza. Attraverso la costituzione di nuovi spazi per la cura si potrebbero affermare nuovi modi di stare insieme. In essi potremo costruire una nuova identità comunitaria; un nuovo modo di guardare ai diritti dei cittadini; finanche un nuovo modo di partecipare, di integrare risorse e far incontrare diritti e doveri. In conclusione, nel prossimo futuro dovremo creare dei “luoghi della cura” in cui non si “venderà” la salute come un prodotto qualsiasi, ma la si costruirà tutti insieme e la si custodirà come un valore comune.

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