Si è tenuta a Taranto dal 21 al 24 ottobre scorsi la  49° Settimana sociale dei cattolici italiani centrata sul tema Il pianeta che speriamo: ambiente lavoro, futuro. #tuttoèconnesso.
Sul palco del Pala Mazzola di Taranto per 4 giorni si sono avvicendati economisti, bibliste, giovani, politici, imprenditori di buone pratiche, ovvero di quelle pratiche che già da tempo stanno costruendo concretamente il pianeta che speriamo se, come umanità, vogliamo avere futuro. Molte delle tematiche affrontate in queste giornate hanno una rilevanza missionaria, nel senso che i missionari da almeno 30 anni dicono che quello che accade da loro, nei vari  sud del mondo, prima o dopo avrà ripercussioni anche da noi. Famosa è la frase di mons. Eugenio Coter, fidei donum di Bergamo, vescovo del Pando, amazzonia boliviana: «Se tagliano la foresta da noi, non piove da voi!».
Su questi temi abbiamo sentito alcuni autorevoli partecipanti al convegno.

P. Francesco Occhetta, gesuita e membro del comitato organizzatore delle settimane sociali: «La chiesa entra nelle questioni ambientali con il suo stile integrale, mettendo insieme persone e ambiente che non possono essere separate. Siamo arrivati  a Taranto proprio per collegarci insieme e fare si che le nostre iniziative a tutti i livelli possano arricchirsi da un confronto continuo. Come afferma papa Francesco le disuguaglianze e le  ingiustizie vanno affrontate in maniera globale altrimenti non andiamo da nessuna parte. Il Sinodo dell’Amazzonia ci ha detto che non possiamo costruire  il pianeta che speriamo con piccole soluzioni, aggiustando, accomodando soluzioni di basso profilo. Dobbiamo lasciarci trasportare oltre i nostri confini, le nostre idee, oltre quello che vediamo, lasciandoci guidare dalla ‘sovrabbondanza’ che è caratteristica di Dio».

Per  mons. Giuseppe Satriano, arcivescovo di Bari e presidente della Fondazione Missio: «Queste giornate ci aiutano ad aprire gli occhi su problematiche che nel mondo missionario sono state denunciate già da tempo. Tra i problemi sollevati negli anni proprio dai missionari  nei diversi continenti, figurano, solo per fare alcuni esempi, il traffico di rifiuti con i paesi del sud del mondo, lo sfruttamento indiscriminato della terra, l’abbattimento delle foreste, il cambio climatico, nodi che avrebbero meritato più attenzione, mettendo al centro la persona e il futuro dei  paesi sottosviluppati. Credo che queste giornate di Taranto riportino a galla la necessità di un impegno a tutto campo per l’ecologia integrale, che non può riguardare solamente la nostra realtà ma deve avere uno sguardo sul mondo, in maniera attenta e perseverante».

Stefano Zamagni, economista, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali: «Uno dei più grossi paradossi di questa fase storica è che tutti sappiamo che così non si può andare avanti, la pericolosità di un pianeta che ha le caratteristiche di cui tutti sappiamo, però nonostante questo non si riesce a muovere passi decisi per avviare a soluzione il problema. Ovviamente -come tutti i paradossi- questo  ha una spiegazione, che è duplice: da un lato domina ancora l’individualismo libertario in base al quale ciascuno pensa che debbano essere gli altri a fare qualcosa e a cambiare, dall’altro l’incapacità di capire che la nuova questione ecologica non può essere trattata con misure di basso cabotaggio. Bisogna aggredire la malattia alle origini e all’origine c’è un modo di fare e concepire l’economia che oggi è superata, sbagliata, di tipo estrattivo. Si pensa ancora che la natura sia come una miniera dalla quale estrarre risorse  che conserva per aumentare il prodotto interno lordo e cosi via: questa concezione estrattiva che nasce due secoli fa è ancora oggi dominante. Fino a ora si è cercato di mettere delle pezze ma non basta più. Bisogna cambiare concezione, pensare la natura in termini di integralità come papa Francesco ribadisce  nella Laudato Si’ e nella Fratelli Tutti. Se tutti gli anni se ne va un pezzo di Amazzonia grande come la Svizzera quello che succede lo sappiamo già: che se entro il 2050 l’aumento della temperatura non sarà contenuto in 1,5 gradi, il disastro sarà inevitabile, si scioglieranno i ghiacci, si alzerà il livello d’acqua, le popolazioni rivierasche dovranno ritirarsi, intere città scompariranno, con tutto quello che comporterà. Come dicevo, finora abbiamo messo delle pezze ad un vestito, bisogna cambiare il vestito!».

Leonardo Becchetti, economista, componente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali: «Le buone pratiche che abbiamo ascoltato rappresentano un mondo abbastanza vasto di aziende che cominciano a capire che coesione e sostenibilità ambientale sono fattori competitivi .Anche noi, nell’analisi Istat, abbiamo constatato che c’è almeno un trenta per cento di aziende che coniugano coesione sociale e sostenibilità ambientale: far aumentare il peso e l’importanza di queste aziende dipende anche da noi. Uno dei messaggi fondamentali delle Settimane sociali è che non dobbiamo chiedere il cambiamento ai potenti, ma il cambiamento dobbiamo farlo noi; non dobbiamo lamentarci per quello che accade, ma dobbiamo ricordarci che siamo consumatori e risparmiatori e se certe cose accadono dipende essenzialmente dalle nostre scelte di consumo, con le quali possiamo far vincere le aziende responsabili. Faccio un esempio: oggi abbiamo piattaforme digitali che probabilmente sfruttano il lavoro, ma abbiamo anche le piattaforme digitali per il consumo responsabile… la cosa importante è che noi diventiamo protagonisti di questo cambiamento».

Per Mauro Magatti, sociologo, Segretario del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali: «Stiamo tutti capendo, faticosamente, che c’è un legame molto stretto tra ciò che facciamo, l’economia, il nostro modo di produrre, di muoverci, e l’ambiente, ovvero l’ecosistema in cui viviamo. Questa è una nuova consapevolezza: la Chiesa col suo linguaggio l’ha sempre saputo e adesso è il momento di aiutare questo mondo alla transizione, che non è solo tecnica, ma è prima di tutto culturale e antropologica. Si può partire da cosa molto concrete, come ad esempio l’eliminazione della plastica piuttosto che intervenire sui consumi energetici o cambiare le nostre abitudini della mobilità, cose che possiamo fare tutti. Ma poi naturalmente il tema di fondo è la certezza che noi siamo tutti in relazione e cioè non esistono degli ‘io’ che possono fare quello che vogliono e non succede niente… Noi siamo esseri in relazione gli uni agli altri e all’ambiente.» Ebbene – conclude lo studioso – «questa è una consapevolezza che le parrocchie possono aiutare a conquistare».

Simona Beretta, economista dell’Università Cattolica di Milano:  «Per prima cosa si deve partire ad uno sguardo al pianeta per quello che è: questa cosa meravigliosa che non abbiamo fatto noi, che ci è stata data. Abbiamo camminato da sempre con ritmo lento e da due secoli lo stiamo calpestando con ritmo frenetico, come se crescessimo di colpo come corpo senza crescere di testa. Così lo stiamo  rovinando! Il pianeta che vogliamo è quello dove l’uomo è testa e cuore, capacità di intelligere vedendo i nessi tra le cose, progettare, e nello stesso tempo  amare non solo  le bellezze naturali ma  anche chi ci abita. Quindi il pianeta che vogliamo è un pianeta dove siamo fratelli tutti, dove  tutti insieme ci prendiamo cura gli uni degli altri e dove tutti ci prendiamo cura della realtà materiale che è ferita, che ha bisogno di grandi interventi -generosi e intelligenti-  di bonifica, di restaurazione. C’è stata una stagione dove  bisognava costruire cattedrali per dire la lode di Dio e ci sono stagioni dove bisogna  riparare,  rammendare, riconnettere… questo penso  sia l’operatività del quotidiano che ci è richiesta». Mentre Amazon spiazza tutti…  «Si è così, viviamo il nostro mondo e abbiamo la responsabilità di fare più bello il pezzettino che ci è stato dato, non certo  autocompiacendoci dei nostri risultati! Bisogna rendersi conto che le grandi decisioni sono ancora largamente guidate da logiche diverse da quelle che proponiamo qui alla 49° Settimana sociale e quindi occorre con energia denunciare, intervenire per sapere cosa sta succedendo. Noi abbiamo attraversato due crisi, quella finanziaria e quella pandemica, e in tutte e due chi ha fatto profitti- mentre tutto crollava-  è stato il sistema finanziario. Non va bene! Bisogna ricostituire il tessuto delle comunità, e partire da lì, coniugando innovazione e sostenibilità». Cosa possiamo imparare dai missionari nel mondo, dalle loro comunità resilienti rispetto a queste tematiche che vivono già da 30 anni?  Cosa impariamo dal sud del mondo…«Intanto a conoscerlo. Ci sono stereotipi e non conoscenze reali. Primo conoscere e poi ascoltare, per troppo tempo abbiamo solo diviso il mondo in donatori e riceventi, la Dottrina Sociale della chiesa, lo afferma da sempre, i poveri sono protagonisti, non  destinatari. Chi sta con i poveri realmente e per tanto tempo come i missionari – non  come l’ONG che va lì fa il progettino e poi torna a casa- e diventa loro fratello, trasforma la storia. Ci sono tante storie di missionari che per il solo  fatto che loro c’erano hanno cambiato la realtà, hanno cambiato testa e cuore della gente cambiando anche loro stessi. Questa è una realtà  importantissima che la chiesa deve conoscere, riconoscere e amare. Da questo ascoltare i luoghi della missione, che sono anche i più freschi dove la fede fiorisce e dove le innovazioni sociali accadono, possiamo imparare molto, molto di più che dalle nostre buone pratiche, che sono buone, per carità!, ma non solo le sole». E i giovani?    «I giovani hanno bisogno di essere ‘accesi’ cuore a cuore come diceva il cardinal  Newnam. C’è bisogno quindi di qualcuno che li accenda. I giovani non sono una categoria sociologica, il giovane che cambia la storia è colui che ha incontrato un maestro credibile, che ha la possibilità di vivere amicizie significative».