In queste settimane si stanno susseguendo diverse letture dell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco. Qui si propone una sua lettura secondo la chiave di analisi della disuguaglianza, delle iniquità, in linea con la campagna chiudiamo la forbice. La parola giustizia sociale è infatti citata ben 40 volte nel testo.

D’altra parte, è impossibile e riduttivo proporre un bignami dell’encilica, piuttosto questo articolo vuole stimolare con alcuni spunti ed accenni ad andare a leggere i diversi capitoli per apprezzare i suoi contenuti e nutrire un confronto personale con i concetti e le proposte avanzate.

Chiaramente il messaggio di fondo è già nel titolo, fratelli tutti, nessuno escluso. Non esistono disuguaglianze, ingiustizie e iniquità che tengano, siamo tutti figli dello stesso Padre, abbiamo tutti la stessa dignità umana. Esistono sì differenze culturali e nazionali, che però si sciolgono nella consapevolezza di appartenere tutti alla stessa casa comune. Siamo tutti nella stessa barca. “Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme!” (Par.8). “La proposta è quella di farsi presenti alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza.” (par. 81) (qui il pensiero non può non andare allo slogan “prima gli italiani”).  Questi sono i fondamentali per un dialogo generativo di speranza fondato sull’applicazione concreta dei diritti umani, dei principi di giustizia ed equità.

Le riflessioni dell’enciclica coinvolgono tutto l’essere umano. Dal cuore dell’uomo alle relazioni in famiglia, nella società, a livello locale e globale. La visione è veramente piena ed ampia. E mette al centro l’amore, l’amicizia sociale, la fratellanza “che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio” (par.1).

Nel primo capitolo dell’enciclica, papa Francesco svela “le ombre di un mondo chiuso”, la costruzione di muri, i nazionalismi “chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi” (par. 11), e i poteri economici che impongono un modello culturale unico, fondato sull’individualismo e sul profitto, che divide per imperare, mentre la politica diventa sempre più debole (par. 12). Si producono così sradicati, la distruzione dell’altro, scarti e nuovi schiavi a livello mondiale, esaurendo risorse limitate. “Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che «nascono nuove povertà») (par. 21).

Si creano le condizioni per una terza guerra mondiale a pezzi: “Così, il nostro mondo avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di «garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia». (par.26)

Il problema è profondo, di carattere antropologico. La colonizzazione culturale (par.14) produce sentimenti di rancore, paura, diffidenza e indifferenza, ostilità. Questa contaminazione produce aridità che non può fecondare. Aridità, grettezza e cinismo che originano lo sfruttamento e l’esclusione, nuove divisioni. L’enciclica ricorre più volte a questi aggettivi per mostrare come il problema sia radicato nella nostra mente e nel nostro cuore.

Solo l’amore può salvare, solo la fratellanza può generare un mondo nuovo. Atteggiamenti umani positivi, aperti, di speranza, di profonda empatia. “Il farsi prossimi, vicini, fraterni … «solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse, si fa realmente padre” (par 4).

Il secondo capitolo è dedicato alla parabola del Samaritano dove appare un’altra parola di luce: la cura. Il samaritano “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui.” (par. 56). E’ una cultura diversa quella della cura, del prenderci cura gli uni degli altri. Occorre ricominciare da questa cultura per creare giustizia sociale, ed è possibile farlo non da soli, ma ricostruendo comunità, relazioni, amicizia, per il bene comune, senza escludere. “È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito.” (par. 78).

La parabola del Samaritano ci sprona a pensare e generare un mondo aperto. Questo terzo capitolo mette al centro l’amore sociale e quindi la virtù della carità per una progressiva apertura e comunione universale. Il papa riprende addirittura i motti della rivoluzione francese libertà, uguaglianza e fraternità! Ci vuole una volontà politica della fraternità (par.103) che riconosca la dignità umana di tutti.

Nella seconda parte di questo capitolo si riprendono i principi della dottrina sociale della Chiesa con riferimento alla funzione sociale della proprietà privata, alla destinazione universale dei beni, a non porre la libertà d’impresa sopra i diritti dei popoli. Ma ci sono dei passi in più, in avanti. Il principio della destinazione universale dei beni va applicato anche ai Paesi: “La certezza della destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. …allora possiamo dire che ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo.” (par. 124).

Occorre una nuova etica delle relazioni internazionali fondata sulla giustizia sociale e sul diritto fondamentale dei popoli alla sussistenza e al progresso, che riverberi il messaggio di papa Francesco ai movimenti popolari, un tetto, una casa e un lavoro per tutti, ripreso nel paragrafo 127: “È possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne”.

Il quarto capitolo “un cuore aperto al mondo intero” affronta soprattutto la questione delle migrazioni stabilendo fin dal principio il diritto a restare ma anche quello a migrare quando nel paese di origine “non vi sono progressi verso lo sviluppo umano integrale” (par.129). I paragrafi successivi indicano chiaramente le azioni da intraprendere per accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

Si riconosce d’altra parte che esiste una tensione tra locale e globale che è possibile superare se si evitano separazioni e polarizzazioni (par.142), localismi chiusi su sé stessi e una globalizzazione astratta. Occorre assumere il “sapore locale” aprendolo alla fecondità del rapporto con l’altro, a nuove sintesi culturali, consapevoli che “una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità” (par. 148). E’ necessaria una reciproca inclusione tra patrie e società mondiale (par. 149).

Ci vuole dunque una “migliore politica”. Il capitolo quinto riprende alcune ombre indicate precedentemente e condanna i populismi e i liberalismi che disprezzano e strumentalizzano i più deboli (par. 155), mentre riscatta il concetto di popolo che viene legato a quello di democrazia e al senso di appartenenza a una comunità con un progetto comune (par. 158). In questo senso “è lungi da me il proporre un populismo irresponsabile». Da una parte, il superamento dell’iniquità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile. Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie» (par. 161).

Una politica migliore si schiera contro il mercato neoliberale e la speculazione finanziaria (par. 168) e  a favore di alternative sociali delle economie popolari e di produzione comunitaria, per le esperienze di solidarietà che crescono dal basso (par.169).  E’ necessario un nuovo potere internazionale più equo, fondato sul diritto e sulla giustizia, sul multilateralismo, dove sia dato spazio alla società civile, alla solidarietà e alla sussidiarietà (par. 175). La politica è sopra all’economia e alla tecnocrazia (par. 177). Ci vuole un amore civile e politico a livello macro (par.181), con una globalizzazione dei diritti umani fondamentali (par. 188 e 189).

Per la realizzazione concreta di una migliore politica è indispensabile promuovere incessantemente “il dialogo e l’amicizia sociale”. E’ il sesto capitolo dell’enciclica che approfondisce il senso del dialogo: non è scambio di opinioni, trattativa, mero calcolo o peggio manipolazione e deformazione, ma vera cultura dell’incontro con una costante tensione verso il progresso, la ricerca del bene comune. Il dialogo non è relativismo perché si fonda sul principio comune della verità della dignità umana (par. 207). Si tratta di andare oltre il consenso occasionale per un dialogo “che non esclude la convinzione che è possibile giungere ad alcune verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute” (par. 211). Per questo ci vogliono processi di incontro tra popoli e culture, e un patto sociale e culturale “che rispetti e assuma le diverse visioni del mondo, le culture e gli stili di vita che coesistono nella società” (par.219).

Il settimo capitolo prosegue la riflessione sui percorsi di incontro. In questo capitolo il tema fondante è quello dei percorsi di pace che richiedono il lavoro dei costruttori, degli artigiani di pace. Una pace che è radicata se si fonda sulla verità, sulla memoria, la giustizia, il perdono e la speranza. I conflitti sociali sono inevitabili e “di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza” (par.240). In questo senso “Non c’è un punto finale nella costruzione della pace sociale di un Paese, bensì si tratta di «un compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti. Lavoro che ci chiede di non venir meno nello sforzo di costruire l’unità della nazione e, malgrado gli ostacoli, le differenze e i diversi approcci sul modo di raggiungere la convivenza pacifica, persistere nella lotta per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune.” (par. 232).

Una riflessione viene dedicata all’ingiustizia della guerra, ricordando come non possa più esistere una guerra giusta (par. 258), e come vadano eliminate le armi nucleari, trasformando le armi in aratri, rilanciando l’idea di creare un fondo contro la fame con i soldi impiegati per le armi (par.262).

L’ultimo capitolo sulle religioni al servizio della fraternità nel mondo, sottolinea il loro impegno per la difesa della giustizia nella società (par. 271). E riguardo la Chiesa la sua dimensione politica di attenzione al bene comune e preoccupazione per lo sviluppo umano integrale: “vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione». (par. 270).

Infine, il testo dell’enciclica viene illuminato dalla gentilezza. Di fronte all’aggressività che si respira sempre di più nella nostra società, frutto della paura, del rancore, della disillusione, la gentilezza è un segno di pace e speranza, di costruzione del futuro in modo soave, che sostiene e che conforta. Il papa ci invita a “(…) scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità” (par.222). (…) “La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti.” (par. 224).

Questa parola ci ricorda un altro artigiano della pace, Alexander Langer, e il suo motto per costruire relazioni umane fondate sulla leggerezza, la lentezza e la profondità. E questo è l’augurio per tutti coloro che si sentono impegnati quotidianamente nella costruzione di un mondo più giusto e rispettoso della casa comune, nel segno di Fratelli tutti.

 

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