Ciad

QUARANTENA E… COPRIFUOCO

Ecco la testimonianza di don Silvano Perissinotto sul coronavirus in Ciad. Don Silvano, già direttore del Centro Missionario di Treviso, da due anni è ritornato in missione in Ciad, dove la diocesi veneta porta avanti un impegno da lungo tempo.


Amazzonia

SARÀ L’ENNESIMA ECATOMBE?

Che emozione aver seguito le celebrazioni del triduo Pasquale di Papa Francesco in diretta su YouTube qui dalla foresta amazzonica di Labrea (amazzonia brasiliana)  dove mi trovo. Che sia davvero una Pasqua di Resurrezione più intensa che mai, la speranza viene dalla fede nel nostro Cristo e per gli índios dai loro aldilà Paje e Casique che hanno la stessa destinazione divina, un Mistero che ci è dato da vivere con fede, la ragione non c’entra. Dio è presente in forme a noi incomprensibili ma vere, e questo ci unisce e ci basta per guardare in alto e camminare assieme. Il Covid è arrivato nel cuore dell’Amazzonia portato dai garimperos (cercatori d’oro illegali), dai fazendeiro (agricoltori) e dai pastori pentecostali -ovvero da chi ha contatti con l’esterno- contaminando la foresta e la sua gente. E’ una tragedia che si ripete da sempre: tutte le epidemie in Amazzonia sono entrate in questo modo e ogni volta è un’ecatombe tra queste popolazioni che, essendo isolate, non hanno difese. Per questo vivono con il terrore che si ripeta l’ennesima decimazione. Qui noi con l’Hospital unico della regione di Labrea siamo in prima linea, affrontiamo problemi immensi perché ci manca tutto, ma faremo  una “trincea” in modo che il VIRUS stia lontano e che il sole tropicale ci dia una mano altrimenti davvero sarà una strage. Ci stiamo arrangiando: le mascherine e  i camici ce li siamo fatti da soli, perché non sarebbero mai arrivati. Grazie alla “liders de saude”, (la responsabile del gruppo salute della comunità, ndr) la battaglia continua!

Gabriele Lonardi
Medico in Amazzonia


India 

L’INIZIATIVA DI KIRAN

Quando ci si ritrova che improvvisamente tutto viene chiuso per 21 giorni e non sai come sarà il prossimo futuro; quando il lavoro che ti ha mantenuto fino adesso è fermo e non sai come andrà avanti la situazione, cosa fare? Credo sia l’esperienza che in questo momento si vive non solo in India, ma in tanti paesi in tutto il mondo  e in Italia siete stati fra i primi, purtroppo a fare questa esperienza di smarrimento. Anche qui in India abbiamo avuto la stessa situazione. Solo che qui, come forse avete visto sui telegiornali, ci sono 450 milioni di persone che vivono con lavori a giornata, senza nessuna sicurezza, e la maggior parte senza nessun risparmio. Quindi non poter andare al lavoro vuole dire mangiare ogni giorno di meno e cercare di sopravvivere.

Nella nostra comunità del Focolare di Bangalore ci siamo fatti questa domanda: “come aiutare le persone nel bisogno? Come coinvolgere altri standosene rinchiusi in casa?” Tutto è partito da un messaggio WhatsApp che uno di noi ha inviato a Kiran,  un seminarista che vive in un villaggio che abbiamo visitato tempo fa. “Ci sono famiglie nel bisogno nel tuo villaggio?”. Nel villaggio di Kiran, chiamato Pedavadlapudi, nel distretto di Guntur, in Andhra Pradesh, ci sono circa 4560 famiglie e una parrocchia con 450 famiglie cattoliche. Kiran (che vuole dire raggio nella lingua locale) proprio quella sera passeggiando si era fermato in varie famiglie che gli confidavano il loro timore per il futuro. Già mangiavano kanji (riso bollito con tanta acqua che si beve e per dare del gusto si mangia assieme un po’ di peperoncino verde) da alcuni giorni e non sapevano come avrebbero fatto per questi 21 giorni di lockdown. Non è normale che persone adulte parlino ad un giovane dei loro problemi e Kiran era tornato a casa un po’ preoccupato. Poi aprendo il cellulare ha visto il messaggio ed ha capito che Dio gli dava una risposta alla domanda di aiuto di quelle famiglie. Così ci siamo messi al lavoro. Kiran ha capito quante erano le famiglie più in difficoltà e noi abbiamo preparato il messaggio da mandare a tutte le persone che conosciamo, con dettagli e conti correnti dove mandare gli aiuti. Ci siamo messi un target di aiutare almeno 25 famiglie, con un sacco di riso di 25 kg e una borsa di verdure, cibo sufficiente per circa 15 giorni per una famiglia, con un costo di 1500 rupie, circa 20 euro.

La risposta è stata immediata. Tante persone hanno partecipato, famiglie e anche tanti giovani. Chi mille, chi tremila, chi cinquemila rupie. Nel giro di pochi giorni abbiamo raggiunto il target stabilito. Ma i contributi sono continuati e siamo arrivati ad aiutare più di 30 famiglie. La media di quattro persone per casa, vuol dire che questo aiuto è arrivato ad almeno 120 persone.

Ma anche in tanti altri villaggi dove ci sono persone che conosciamo i bisogni sono molti. Così abbiamo iniziato ad aiutare anche in altri luoghi. Ora sono tre i villaggi che stiamo aiutando, sempre con persone del posto che conoscono bene la situazione e sanno aiutare nel modo più opportuno. Come Chiara Lubich ci aveva insegnato di amare le persone una alla volta, così ci sembra anche in questo caso: amare un villaggio alla volta, ma senza fermarsi! È poco, sono gocce ma tanti si sono mobilitati. Qui nella diocesi di Bangalore, dove abbiamo anche contribuito, lo sforzo dell’Arcivescovo tramite il centro sociale per aiutare tanti lavoratori bloccati qui per il lockdown è stato ed è molto grande. Da Bangalore ora passiamo l’iniziativa anche a Mumbai, Nuova Delhi e Goa, in modo che quello che abbiamo possa circolare il più possibile. Quelle poche gocce d’amore che riusciamo a donare restano e riempiono il nostro cuore e il cuore degli altri.

La comunità del Focolare
Bangalore


Mozambico

NOI LA PANDEMIA CE L’ABBIAMO SEMPRE… MA NON FA RUMORE

Ciò che ci attende ancora non l’abbiamo chiaro. Il virus è già entrato in Mozambico  ma i test, ovvero  i tamponi, sono pochissimi per il fatto di non avere mezzi sufficienti per farli (e poi si devono mandare a Maputo, cioè a 1700 km da Nampula, da dove vi scrivo, o in Sud Africa per l’esito), per cui ci illudiamo che i casi per ora sono pochi, ma chi se ne intende, sa che la realtà è differente. Per ora la nazione ha deciso di proclamare lo Stato di emergenza nazionale per 30 giorni per l’ epidemia che sta cavalcando il mondo.  Si sono prese misure di contenimento, ma se si propaga come in Italia, saremo non solo in ginocchio, ma prostrati, sapendo che già con  la malaria, l’AIDS, il colera, la tubercolosi, il tifo e altre malattie, viviamo sempre “in emergenza o in una pandemia”, e negli ospedali le corsie sono sempre piene di ammalati stesi per terra. Qualcuno ironicamente ci diceva: “noi la pandemia ce l’abbiamo da sempre, ed è la povertà e le nostre malattie che mietono molte vittime, ma non fanno rumore perché non uccide i ricchi” (vedi la finanza mondiale, che con i suoi meccanismi  speculativi e disumani, in silenzio spazza via milioni di essere umani ogni anno, anestetizzando le nostre coscienze). Ora anche qui i vescovi ci hanno chiesto di chiudere tutto per un mese (per ora..).  Per la cultura africana è davvero incomprensibile il distanziamento sociale, soprattutto nel dolore e nel lutto, ma allo stesso tempo sappiamo che è necessario.  La gente teme, e non sa’ se vivrà, perché oltre il coronavirus, entrerà la fame per molti. Alcuni smarriti mi dicono: “o moriremo di coronavirus o di fame”. 

Oggi vedo giovani e adulti presi e messi in carcere per aver trasgredito le regole di contenimento. Il motivo? Cercavano con la moto o con la bicicletta di guadagnare il pane per la famiglia facendo il taxista! Qui l’ 88% vive di lavoretti informali, il 60% vive una forte povertà. E nessuno pensa che gli sarà offerto un sussidio o un aiuto, sapendo come sono le finanze dello Stato. Le case qui in periferia di Nampula sono piccole e affollate e fatte per dormire e non per  vivere, i trasporti sono un gran problema per questo virus, pochissimi possono andare al lavoro con un mezzo proprio,…Cosa sarà? Solo il buon Dio lo saprà. Fra un mese poi comincierà ad abbassarsi la temperatura e questo ci preoccupa. 

Noi missionari…

Noi missionari cosa dobbiamo fare? La nostra vita l’abbiamo consegnata a Dio e a questo popolo che ci ha affidato di custodire nel Suo amore, per cui andarsene è come un padre o un fratello maggiore che lascia la propria casa e i propri figli e fratelli in balia degli eventi.  Per questo noi missionari e missionarie  vogliamo affidarci al cuore di Dio (rivelato sulla croce in Gesú) e a quello materno di  Maria, certi che con loro non rimarremo delusi, così ci insegnava  il Comboni. 

Durante il tempo della guerra civile qui in Mozambico (1976-92), una missionaria comboniana che assisteva gli ammalti all’ospedale, impossibilitata di lavorare per le restrizioni dei soldati, aveva deciso di cambiare missione per continuare il suo lavoro con gli ammalati. Ma un uomo povero e saggio le si avvicinò e le disse: “cara sorella ricordati bene che se una madre non può fare nulla per i suoi figli, non li abbandona”. Cosí rimase con loro, perché anche il rimanere dà speranza, forza  e consolazione. Forse è proprio questo che ci chiede il Signore in questo tempo, esserci con loro condividendo la loro passione, sapendo che qualsiasi cosa accadrà, per la forza dell’amore che ci ha consegnato Gesú, risorgeremo assieme.  

Come vivo ora le giornate?  

Il mio tempo ora è speso nel cercare di informare e formare sulla prevenzione, preparando materiale da dare alle famiglie, preparare mascherine con le donne, incoraggiando a vivere una chiesa domestica, invitando a pregare da casa tutti insieme alla stessa ora con i testi biblici del giorno. Aiutarli a non cadere nella rassegnazione e stando attenti ai vari falsi profeti che promettono miracoli e riti stolti e pericolosi. Ogni giorno sebbene ci sono tante restrizioni e le attività di carità e di annuncio parrocchiali non possiamo svolgerle come prima, i poveri mi cercano e mi bussano alla porta per raccontarmi il loro dolore, la loro fatica, nella speranza di una parola, un gesto di consolazione e condivisione. Cosí anche per scrivere questa lettera, ho dovuto fermarmi tre-quattro volte per attendere ai loro bisogni. Poco fa una povera donna vedova con creature piccole mi pregava di comprarle la farina per non morire di fame,… Papa Francesco  in una omelia a S. Marta in questi giorni ci ricordava che saranno i poveri a giudicarci, perché Gesú è in loro.  Ci riscopriamo un po’ missionari “inutili” che non possono dare quell’ “utile “che sempre sta nel nostro modo di pensare. Ora, non potendo fare quello che era programmato, ci è chiesto di condividere e dare speranza a un popolo che già viveva i suoi “coronavirus”. Per questo ci resta la nostra vita innestata in Lui da condividere in questa fragilità, dove sono certo che Gesù soffre, ama e carica la croce con ognuno di noi. Con Lui anche le nostre sconfitte, i nostri timori, le nostre fragilità e forse alcuni nostri addii,  troveranno sempre una luce nuova di un cammino di vita, perché chi ama in Lui non muore mai. In questo orizzonte in cui l’oscurità sembra avvolgerci, mi consola poter soffrire, lottare e sperare con questo popolo. Loro, ogni giorno, con piccoli gesti carichi d’amore e vicinanza, mi insegnano e mi annunciano che Lui è sempre vivo in mezzo a noi e questo è un grande annuncio di Pasqua. Una Pasqua inedita,  sorprendente, fragile e per questo ancor più vera, nella consapevolezza che nulla ci potrà separare dall’ amore di Dio rivelato nel Suo figlio Gesù.

p. Davide De Guidi
comboniano