Il 24 marzo si celebra la Giornata dei Martiri. Quest’anno nel ricordo dei  40 anni dalla morte del “Santo de America”. 

Oscar Arnulfo Romero nasce il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios in una famiglia con 8 figli, di umili condizioni. Nel 1931 entra nel  seminario diocesano di san Miguel. A vent’anni, nel 1937,  passa nel seminario maggiore di San Salvador, ma ci rimane pochi mesi.  I superiori, che avevano  già colto  le capacità del giovane Romero,  lo mandano a studiare a Roma. Viene ordinato prete a Roma nel 1942, lontano dalla sua gente. Nel 1943, dopo varie vicissitudini, rientra in El Salvador nella sua diocesi di San Miguel dove nei successivi 25 anni assumerà una serie di incarichi. 

Disciplinato, rigido, molto conservatore: piace molto ad alcuni, è visto malissimo da altri. Questi uni e questi altri, nella vita di Romero, cambieranno molto. Romero per tutta la vita avrà a che fare con detrattori. Da tutte le parti. Nella prima parte della sua vita, quella del Romero uomo delle istituzioni, che si scaglia contro le comunità di base, i gesuiti e le loro scuole, la formazione nel seminario, amico personale del Presidente Molina, dovrà fare i conti con gli attacchi delle stesse comunità di base, dell’ala progressista dei cattolici salvadoregni. Nell’ultima parte della sua vita invece con le calunnie che gli arriveranno dall’oligarchia al potere, che riteneva insopportabili le sue omelie domenicali, trasmesse via radio in tutto il paese e ascoltate dall’intero popolo.  Gli uni e gli altri, hanno sempre usato l’arma di una sua presunta debolezza psicologica. 

E’ il 21 aprile 1970 quando il Nunzio gli comunica l’intenzione del papa di nominarlo vescovo: era una scelta che non stupiva nessuno. Era visto come l’uomo dell’istituzione, molto preparato, con incarichi nella Conferenza Episcopale, aveva viaggiato e quindi conosceva bene varie realtà Centro Americane. I tre anni come ausiliare di San Salvador furono anni molto duri: si scontra con tutti, dai gesuiti che conducevano il seminario a quelle comunità di base che, secondo Romero, travisavano il significato della Conferenza di  Medellin.  Nel 1974 diventa vescovo titolare  della diocesi di Santiago de Maria dove, lui stesso scrive, “inciampai nella miseria” 

Il 21 giugno 1975 è la data di inizio della svolta di mons. Romero: da sei mesi era vescovo di Santiago de Maria. 40  agenti della guardia nazionale, di sera,  fanno irruzione in un villaggio nella zona di Jiquilisco e uccidono il contadino Josè Alberto Ostorga, i suoi figli ancora adolescenti, i suoi vicini. In tutto 6 morti.  “Non vi preoccupate, torneremo”,  dicono gli assassini.  Romero sceglie la denuncia in forma privata ed invia una durissima  ettera al Presidente della Repubblica  Molina, suo carissimo amico. Ma qualcosa in Romero sta cambiando.

Passa quasi tre anni a Santiago de Maria, poi nel febbraio 1977 gli viene affidata la diocesi di San Salvador. Torna da dove era partito, diventa arcivescovo. Gode ancora della massima fiducia nell’episcopato salvadoregno. Ancora per poco, però.
12 marzo 1977: tappa drammatica della vita di Romero. Uccidono il suo grande amico e collaboratore p. Rutilio Grande a Paisnal, assieme a due catechisti.  Romero per protesta fa celebrare una sola messa la domenica 20 marzo in tutta la diocesi di San Salvador, in cattedrale. E’ un evento clamoroso che accentua la divisione con alcuni vescovi salvadoregni, che fa stizzire il nunzio. Le critiche arrivano fino in Vaticano. Romero denuncia sempre più apertamente le  cause della povertà, denuncia le decine di crimini commessi tutte le settimane dal potere al governo e dalla guerriglia. Il suo pensiero e la sua azione si prestano a fraintendimenti.  Del resto lo diceva anche Helder Camara: se dò da mangiare ai poveri sono un santo. Se mi interrogo e faccio interrogare su chi li impoverisce, divento comunista. 

Dopo la messa unica del 20 marzo 1977, Romero è ancora più coinvolto in  una serie di tensioni. E’ tra i pochi a sostenere il bisogno di pace a tutti i costi, quando le forze politiche (da destra a sinistra) sono pronte allo scontro armato come unico mezzo per sanare la situazione che sempre più è fuori controllo. Deve affrontare una miriade di problemi anche sul versante ecclesiale:  le divisioni con i vescovi, le accuse di poca capacità di gestire la diocesi, le visite a Roma in Vaticano, i due visitatori apostolici inviati dal Vaticano stesso, il problema dei preti impegnati in politica e nella lotta clandestina contro i crimini perpetrati dall’oligarchia al potere. 

Da sempre l’oligarchia al potere cerca di comprarsi i favori di mons. Romero.
Appena diventa arcivescovo di San Salvador – febbraio 1977- gli viene offerta una residenza di lusso nei quartieri sicuri della città. E poi automobili, uomini di sicurezza. Lui rifiuta tutto questo. Preferisce andare a vivere  all’Ospitalito  con i malati oncologici. Le suore che gestiscono l’ospedale gli sistemano la sacrestia, dietro l’altare della chiesa:  una stanza con bagno. All’ospitalito vive mons. Romero nei tre anni da arcivescovo di San Salvador, prima della sua morte.   Il nunzio apostolico gli disse che quello non era un luogo adeguato e degno perché ci vivesse un arcivescovo. Lui rispose che gli sarebbe piaciuto vivere da un’altra parte, ma solo quando tutti i salvadoregni avessero avuto un’abitazione dignitosa.  Romero dava fastidio, molto fastidio, soprattutto  perché testimoniava con la vita quello che predicava. 

La situazione nel Salvador precipita e nell’ultimo anno di vita di Romero, il 1979, le minacce diventano frequenti. Il 7 settembre 1979 lo stesso Romero denuncia queste minacce. I suoi preti gli consigliano come muoversi, gli consigliano prudenza. Detto fatto: da quel giorno non permise quasi più a nessuno di accompagnarlo,  per non far correre ad altri gli stessi pericoli. Il 24 marzo 1980, mancava una manciata di minuti alle 18,30 mons. Romero viene ucciso mentre, all’ospitalito, celebra messa.  La sera di quello stesso giorno si ripetè una scena già vista tre anni prima nel giorno del suo insediamento come arcivescovo di San Salvador: i ricchi festeggiavano, i poveri piangevano. Ma i motivi si erano definitivamente capovolti.    

ANCHE P. RUTILIO GRANDE SARÀ BEATIFICATO

Papa Francesco, ricevendo il 21 febbraio scorso il cardinale Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha autorizzato il Dicastero a promulgare i decreti che danno il via libera alla beatificazione. Saliranno all’onore degli altari insieme a Rutilio Grande anche i due laici, uccisi con lui il 12 marzo del 1977, in odio alla fede, nel Salvador.

E’ stato illuminante per me durante un breve ma intenso pellegrinaggio in El Salvador, scoprire l’amicizia sincera e profonda di mons. Romero con un altro martire, il gesuita Rutilio Grande. Due vite solo apparentemente separate: Rutilio che sceglie di vivere tra i contadini nella parrocchia di Aguilares, e Romero vescovo prima a Santiago de Maria e poi a San Salvador. Romero e Rutilio avevano un forte entusiasmo apostolico, che si manifestava – però – in forme diverse: una forte spiritualità, quella del Vescovo teologo, che lo portava ad elevare uomini e cose; una altrettanto intensa umanità quella del giovane gesuita che si preoccupava di far scoprire l’amore sconfinato di Dio nel quotidiano di sofferenza degli uomini e donne del suo tempo; la stessa identica passione per la pastorale popolare che si esprimeva in modalità differenti. Se i punti di partenza erano diversi, la conclusione però è stata la stessa: alle ore 17.00 del 12 marzo 1977  su una jeep viaggiavano diretti ad una celebrazione religiosa al nord della capitale,il padre Rutilio assieme al 72enne Manuel Solorzano ed il 17enne Nelson R. Lemus: tutti e tre trucidati barbaramente all’altezza di Tres Cruces del Comune di El Paisnal. Sostarvi, incredulo e perplesso per la mia ignoranza circa fatti tanto tragici, è stata una ulteriore stazione dolorosa nel pellegrinaggio trasformato in una inedita Via Crucis. Lì ho scoperto l’influsso determinante che l’assassinio di padre Rutilio a pochi giorni dall’ingresso in Diocesi ebbe sul neo-Arcivescovo di El Salvador: una “svolta nella mia vita” lo definiva Lui stesso, un particolare dono di ‘fortaleza’ (fortezza) pastorale capace di fargli affrontare con coraggio conflitti e persecuzioni, senza vacillare davanti al dramma di sacerdoti, catechisti, e fedeli torturati o uccisi, senza indietreggiare di fronte alle divisioni laceranti che spaccavano il Paese e la Chiesa salvadoregna, “una maturazione della coscienza” come Egli stesso spiegò a papa  Giovanni Paolo II. Così oggi è a tutti chiaro che il 12 marzo 1977  e il 24 marzo 1980, se il popolo e la chiesa salvadoregni hanno perduto  due testimoni, l’umanità ha guadagnato due martiri.

Sergio Marcazzani