Indio del popolo Guajajara agente forestale indigeno dei “Guardiani della Foresta”, è stato ucciso nel Maranhão, Brasile, il 2 novembre scorso

Don Alberto Reani, fidei donum italiano, da 20 anni lavora in Brasile e da qualche anno ricopre l’incarico di assistente ecclesiastico della Pastorale Indigena della Diocesi di Floresta (Pernambuco/Brasile). Ecco una sua testimonianza.

Don Reani: il Sinodo per l’Amazzonia ha parlato molto di “buon vivere”. Dalle sue parti in Brasile, tra i suoi indigeni,  come viene visto?

E’ interessante, tutte le popolazioni indigene hanno traduzioni dello spagnolo Bien vivir: in  Quechua si dice Suma kawsay, in  Guarani Teko porã, ovvero  vivere d’accordo con i principi che orientano la relazione tra gli esseri esistenti. E via via il concetto ha avuto anche rilevanza politica: in Ecuador, l’espressione fu incorporata nella Costituzione del 2008 e si è istituzionalizzata nel Plano nacional para el Buen Vivir per il periodo 2009-2013. Il Piano rompe con il neoliberale Consenso di Washington (1989) e con i concetti ortodossi del capitalismo, come per esempio quello di sviluppo [desenvolvimento]. In altre parole, il Piano propone un cambiamento: abbandonare la logica del “vivere meglio” – inteso come il diritto che un settore della società ha di consumare sempre più, a scapito della maggioranza – e assumere la logica del “vivere bene” come diritto di tutta la società. Il Buon Vivere passa a far parte anche della Costituzione della Bolivia (2009), come un diritto e come un principio etico morale. Su tutto questo è interessante lo studio di Graciela Chamorro dal titolo “O Bem Viver nos povos indígenas”, promosso dal CEBI in Brasile. Indubbiamente per parlare del “Buon vivere” dobbiamo recuperare la nostra memoria storica. E dipende a quale latitudine sei a fare la storia…

D. Spieghi…

Dopo la Prima e Seconda Guerra Mondiale l’Europa intera doveva ricostruirsi. L’idea “dello star bene” era legata alle case, alle scuole, agli ospedali. E perció alle famiglie, all’educazione e alla salute. La Seconda Guerra Mondiale aveva però introdotto una nuova realtá: la tecnologia, offerta dalla scienza. E con questo, il concetto di sviluppo, che fu poi accolto anche dalla Chiesa nel Concilio. Un modo positivo di vedere il mondo. Un senso di speranza nella ricostruzione, non solo uscendo dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, ma anche dalle macerie umane che la Grande Guerra aveva lasciato nel segno dei suoi Campi di Concentramento. Con la tecnologia e nella prospettiva dello sviluppo, con la maggiore prossimità tra gli Stati Nazionali, anche se in un contesto di Guerra Fredda che divideva il mondo in libero commercio (Paesi Alleati) e assolutismo di Stato (Blocco Socialista), entra l’idea del BENESSERE. In verità lasciava una certa confusione tra essere e avere, dato che il benessere appare dipendere sempre più dal possedere beni di consumo. E alcuni preconcetti cominciano a infiltrarsi nel pensiero popolare. 

D. Quali?

In veritá sono preconcetti antichi, usati ancora nel ‘500 con gli indios (nell’America), con i neri (nell’Africa) e con tutti quelli che potremmo definire come “altri” o “diversi da noi”. Tali preconcetti si interpretano a partire da due prospettive in conflitto del concetto di TEMPO, di TERRA, di RELAZIONE, di TRADIZIONE. I popoli del Sud del mondo sono definiti come “tradizionali”, “sottosviluppati”, “poveri”, “tribali”. Visti come “gente del passato”, in una visione evoluzionista/darwiniana della vita, dove l’umanitá necessariamente deve percorrere, linearmente come in una fila, lo stesso cammino di uno sviluppo che vede per primi i paesi del nord, europei e americani, e per ultimi i Popoli della Terra, della Foresta, i “Selvaggi” e senza cultura. Nel frattempo, le loro terre e le loro risorse passano in mano straniere per essere sfruttate. Evidentemente nessuno puó questionare questo modello di sviluppo, anche perché la Seconda Guerra Mondiale lasciava chiaramente alcuni Paesi in situazione di superioritá (politica, sociale e economica), quasi una cupola, che all’ONU ha piú diritti degli altri, come quello di veto. É sempre piú chiaro che quelli che criticano il modello di sviluppo proposto (o imposto!?!) sono, non solo all’opposizione, ma anche perseguitati (…e torturati, all’epoca dei governi militari dell’America Latina – 1962-1988) e assassinati. Quanti sindacalisti, ecologisti, ambientalisti, índios, preti e suore (missionari e non) sono stati uccisi nel mondo negli ultimi 50-60 anni? Nella societá post-moderna si percepisce l’inganno, si vive una specie di disillusione. Lo sviluppo, questo tipo di sviluppo, non soddisfa!

D. Anche la chiesa critica il sistema..

Le ultime reazione della Chiesa vengono da papa Francesco: il Sinodo per l’Amazzonia e la Convocazione ai giovani impresari per una nuova economia (2020). Il Sinodo per l’Amazzonia raccoglie dati su una realtà umana, sociale e spirituale, che grida, che invoca, che chiede soccorso per poter sfuggire alla morsa di uno “sviluppo” che la sta uccidendo, come è accaduto pochi giorni fa (il 2 novembre) nello Stato brasiliano del Maranhão, dove un indio del popolo Guajajara, Paulo Paulino, agente forestale indigeno dei “Guardiani della Foresta” è stato assassinato da un gruppo di “madeireiros”, taglialegna. L’assurdo si vede quando gli uomini della Legge, del governo,  criminalizzano i difensori della terra e dell’umanità, difendendo gli interessi degli assassini e delle imprese che sfruttano le risorse in nome del lucro; quando i politici e gli uomini di governo criticano le azioni che chiamano “terroristiche” di tali difensori che, come dicono loro, provengono da ideologie comuniste; quando anche persone di Chiesa li ritengono nemici della morale del vangelo o legati a principi pagani.

D. In tutto questo cosa ci ricordano gli indigeni?

Ricorrendo all’esperienza indigena del contatto originale con la terra e alla riscoperta dei valori evangelici della povertá, castitá e obbedienza, si parla di BUON VIVERE. Questo dovrebbe portarci ad una nuova esperienza del vivere umano: nuovi ritmi, tempo e relazioni; nuovi stili di vita, nell’essenzialitá e semplicitá; nuove immagini di noi stessi e di Dio, comunione e dialogo.

I “Popoli della Foresta” ci ricordano: “Noi siamo della Terra!” Questo dovrebbe aiutarci ad instaurare nuove relazioni con la natura e con noi stessi, con gli altri e con Dio.