“Quando gli algoritmi avranno estromesso gli umani dal mercato del lavoro, la ricchezza e il potere potrebbero risultare concentrati nelle mani di una minuscola élite che possiede i potentissimi algoritmi, creando le condizioni per una disuguaglianza sociale e politica senza precedenti”. Così scrive Yuva Noah Harari, storico e autore del bestseller internazionale “Homo Deus. Breve storia del futuro” edito da Bompiani.

E’ dai tempi della rivoluzione industriale che l’innovazione tecnologica, motore del capitalismo ma anche della pianificazione socialista fino a quando ha funzionato, ha suscitato grandi speranze assieme a grandi preoccupazioni per le conseguenze sociali. Tra queste la creazione di nuove disuguaglianze. Accanto e intrecciata alla globalizzazione e al cambiamento climatico, la digitalizzazione e robotizzazione segna un cambiamento epocale. Se gli studiosi del cambiamento climatico hanno coniato il concetto di antropocene per marcare una nuova era geologica segnata dalle attività antropiche. Gli studiosi del cambiamento tecnologico potrebbero coniare il nuovo concetto di algoritmocene. Una nuova epoca storica fondata sulla sostituzione dell’uomo con l’intelligenza artificiale. Sembrano speculazioni fantascientifiche ma sono realtà oramai quotidiane.

Tanto che la Commissione delle Conferenze Episcopali europee ha redato un documento sul futuro del lavoro che cerca di analizzare con una critica etico-sociale questo cambiamento. La Commissione individua tre processi che stanno guidando il futuro del lavoro: la polarizzazione del mercato del lavoro, le nuove forme di lavoro senza regolazione e l’intensificazione della vita lavorativa (COMECE, Shaping the future of work, October 2018).

La digitalizzazione, l’automatizzazione della produzione assieme alla crescente globalizzazione, la nuova economia dei big data e le intelligenze artificiali, se da un lato stanno creando nuovi posti di lavoro, forse più creativi e meno usuranti, dall’altro sostituiranno numerosi lavori condotti tradizionalmente dall’uomo.  Ma soprattutto è già evidente un processo di polarizzazione del mercato del lavoro: crescono molte occupazioni ad alta remunerazione così come nel settore dei servizi a bassi salari, mentre diminuiscono le occupazioni tradizionali impiegatizie e operaie. In particolare gli occupati nei servizi più umili trovano remunerazioni letteralmente “da fame” e sono oggetto di una forte pressione sui tempi di lavoro. Dal 2007 al 2017 i lavoratori poveri sono cresciuti dall’8 al 10%.

Queste nuove disuguaglianze hanno anche altri aspetti di carattere territoriale: tra gli spazi rurali, sempre più abbandonati, e le città, dove le periferie povere e degradate crescono; tra il nord e il sud Europa, con ulteriori effetti in termini di migrazioni per lavoro (si pensi al continuo depauperamento di giovani nel sud Italia). Le disuguaglianze di accesso al mondo del lavoro e di retribuzione si accompagnano quindi a crescenti disuguaglianze geografiche.  Questo infatti accade anche tra paesi del nord e del sud del mondo, e all’interno dei paesi nel sud del mondo. Le conseguenze sono pervasive.

Il secondo processo riguarda l’aumento delle forme di lavoro non regolato, il precariato, gli accordi flessibili, le nuove piattaforme della sharing economy con lavoratori a cottimo reclutati attraverso gli algoritmi di internet. Queste forme di flessibilità colpiscono soprattutto i più giovani generando la disuguaglianza tra generazioni. La sbandierata maggiore autonomia e indipendenza di questi lavori si svela come una pia illusione, senza sicurezza, stabilità e misure di protezione sociale.

Il terzo processo generato dall’uso delle nuove tecnologie produce l’appannamento tra tempi di lavoro e tempi di vita libera. Per cui oggi i lavoratori sono tali sempre e in qualsiasi luogo. La pervasività e l’intensificazione del lavoro generano crescenti pressioni psicologiche, una cultura di disponibilità permanente. Non esistono più momenti di ozio liberi dalla produzione e dal consumo.  E’ la rapidizzazione citata da Papa Francesco nella Laudato Si (par. 18).

A fronte di questi processi la Commissione delle conferenze episcopali promuove un mondo del lavoro per tutti, sostenibile e partecipativo. Ricordando che l’economia deve essere al servizio dell’uomo e non viceversa, sostiene il diritto a condizioni di lavoro e a remunerazioni giuste con regole che coprano tutte le forme di lavoro. E questo sia nelle economie ricche che in quelle dove si delocalizzano i lavori più sporchi attraverso le catene di valore internazionali. Chiede tempi di vita per le relazioni umane nella società e in famiglia, libere dai condizionamenti del mercato. Cita il diritto a sconnettersi, riconosciuto recentemente in Francia e il diritto alla domenica. Rimarca l’importanza di lavori per la sostenibilità e la cura ambientale con investimenti pubblici adeguati, e misure per affrontare la transizione giusta. Tutto ciò implica una nuova Europa fondata sul lavoro per tutti con giuste retribuzioni, con sistemi di protezione sociale e ambientale, che possono essere finanziati con una fiscalità che chiede di più al capitale e da chi trae maggiore profitto dal controllo e gestione delle piattaforme digitali e dalla speculazione.

Se da un lato il cambiamento tecnologico causa nuove conseguenze sociali, creando nuove disuguaglianze. Dall’altro occorre ricordare che questo cambiamento è a sua volta conseguenza di un processo, di un sistema.  Non nasce nel vuoto cosmico. Nella Laudato Si, Papa Francesco scrive del paradigma tecnocratico che sostiene un sistema che esclude e degrada la terra.  “Il problema fondamentale è un altro, ancora più profondo: il modo in cui di fatto l’umanità ha assunto la tecnologia e il suo sviluppo insieme ad un paradigma omogeneo e unidimensionale” (Par. 106) E “occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere” (par. 107) La tecnica non è solo uno strumento che può essere utilizzato bene o male, “il paradigma tecnocratico è così dominante che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e ancora più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua logica” (par. 108).

Ciò significa che quello che sta avvenendo non è casuale ma figlio di padri ben precisi. Cambiare il cambiamento tecnologico e le sue conseguenze più nefaste a livello sociale e ambientale, richiede quindi una trasformazione dell’attuale sistema. Viste anche le conseguenze sull’ambiente, non sono più possibili semplici maquillage. Il cambiamento dovrebbe essere radicale. E, forse, lo sarà proprio a causa delle conseguenze indotte. Non è più tempo solo di buone pratiche, siamo chiamati a dipingere nuove utopie.

“Dio è morto, Marx è morto e anch’io non mi sento molto bene”. Questa battuta famosa di Woody Allen, serve a evidenziare, infine, come la rivoluzione algoritmica comporti una trasformazione profonda a livello antropologico. Anzi, la fine dell’antropologia, e la sua sostituzione con l’algoritmologia. Lo storico Yuva Noah Harari spiega la nascita di una nuova religione, il datismo, per cui non esiste un Dio, ma non esiste neanche l’uomo, nel senso umanista. L’uomo è un costrutto di algoritmi biochimici. Il Sé, l’individuo, non esiste. E’ una illusione e un retaggio del passato. Da una visione antropocentrica si sta passando all’algoritmocentrismo. Ciò che esiste è il flusso di dati, la conoscenza potenziata e auto prodotta da intelligenze artificiali.  

Ma questa è solo una possibilità. Niente è predeterminato. Lo storico conclude il suo libro con tre domande che dovrebbero guidare la nostra riflessione: la vita è davvero solo elaborazione di dati? È più importante l’intelligenza o la consapevolezza? Cosa accadrà quando gli algoritmi ci conosceranno più a fondo di quanto noi conosciamo noi stessi?

Forse esiste ancora un’altra possibilità. Quella di far crescere la nostra consapevolezza di questi processi per la ricerca di nuove visioni dove uomo, natura … e intelligenze artificiali, collaborino per il bene comune, contro le disuguaglianze, secondo la speranza fondata sul messaggio evangelico. Occorre crederci. E’ bello crederci e lavorare per questo.

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